L'occhio di Vrana. Racconti da un'isola.
INDICE
Prologo
cap. 1 Anniversario
cap. 2 Denari e lotterie
cap. 3 Diecimila laghi
cap. 4 Incontri
cap. 5 L'altro vento
cap. 6 Senza dubbio il diavolo, signor Brix
cap. 7 Immagini al telefono
cap. 8 Mer e lumièr
cap. 9 Instabili equilibri
cap.10 Velocità della luce e altre velocità
cap.11 Pesce elettrico
cap.12 Il dono di Zeca
cap.13 Rungli Rangliot
cap.14 L'ultima estasi
cap.15
L'occhio di Vrana
Isola.
Tra tante parole qualcuna evoca, oltre al luogo, una condizione. Un modo d'essere.Isola è una di queste. Non solo uno spazio geografico delimitato dal mare, e per questo quasi dispensato dal seguire le regole che valgono per gli spazi contigui, giocoforza costretti a venire a patti. O ad alimentare un pericoloso desiderio di rivalsa, se non si ritengono rispettati. Usando nel caso la storia, che permette, leggendola dal punto che più fa comodo, di tirare quel confine a proprio favore, arruolando nel proprio campo tradizioni e costumi.Razze, torti subiti e gloriose battaglie. Divinità. Vittorie che hanno permesso di allargarsi.
Non ci sarebbe fine al desiderio di espandersi, di accumulare. Fa parte della storia umana, è connaturato alla nostra specie. In un'isola le cose non vanno del tutto in questo modo, e quel poco conta.Per espandersi tocca andare a cercare gli altri luoghi e chi ci vive. Ammesso sia stato possibile ottenerla, il mantenere una qualche conquista costa molta più fatica e impegno, anche economico. A conti fatti si capisce perché, entro certe dimensioni, sia meglio accettare i propri confini e sfruttare quello che c'è a disposizione. Difenderli anche, e con maggior determinazione, perché le genti delle isole si identificano con la forma geometrica di queste, senza nessun lato in comune con altri.
Oltre quei confini il mare. L'infinito, quasi. Una metafora dell'uomo: oltre i confini del proprio piccolo essere – il Tonal – l'infinito Nagual. Così lo descrisse tale Castaneda, riscuotendo parecchio successo. Una brillante intuizione, quasi la storia di un'isola circondata dal mare che cercando di conoscersi si perde in esso. La storia dell'uomo e della conoscenza.
La storia di tutti noi, alla ricerca della nostra isola dove poterci finalmente riconoscere, per cercare di dimenticare almeno parte dei problemi di ogni sorta che ci portiamo sulle spalle. E dopo quelli, per i più fortunati, anche di sé. Qualcuno ha trovato la sua isola anche senza andarci fisicamente, Salgari per esempio. Qualcun altro la trovò in una montagna, come quel saggio indiano, Ramana.
È un
modo d'essere, senza regole fisse.
Tuttavia esistono le isole reali, di roccia e piante. Di mare e sole. Di pesci e alghe. Si può cominciare con quelle, e non è poco. E trovarci qualcosa di inatteso. Da più di trent'anni frequento quella che considero la mia isola. Non solo la bellezza del posto. Non solo l'abitudine. Dopo tutto questo tempo ho finalmente scoperto il vero motivo. L'isola attendeva il momento di raccontarmi la sua storia. Adeguata alla mia capacità di comprendere e immaginare. Per un altro sarà diverso.
Quest'estate
il momento è arrivato, e il libro nasce da quell'incontro inaspettato.
Che il posto – al pari di molti altri – sia speciale è fuor di dubbio per me e per tanti turisti che vi giungono. Le descrizioni delle bellezze che troverete potranno darvi l'impressione di un catalogo come quello di un buon vivaio, belle immagini a cui corrisponde un nome. Per alcuni generi di libri, come questo, forse sarebbe interessante allegare un dvd video, meglio se realizzato dall'autore. Avrei abbastanza materiale al riguardo... ne avrei anche per un altro libro scritto in precedenza – un romanzo ambientato in una Provenza illuminata dal suo fiore, la lavanda – di cui al momento diciamo che ho perso le tracce.
Sono arrivato qui la prima volta nel 1979 e da allora vi ritorno. Per qualche anno l'ho lasciata ad attendermi, quando vi fu la guerra e la nazione ritornò a chiamarsi Croazia. Ne approfittai per visitare da capo a fondo Elba, Corfù, Cefalonia, Sardegna e un po' di Corsica; sempre isole naturalmente, di cui si possono dire molte cose belle e interessanti, ma sarà qualcun altro a farlo, io devo parlare di questa. Il fatto è che con le altre bellissime isole citate non c'è stata quella sintonia che ho trovato ad esempio percorrendo avanti e indietro l'unica strada di questa, ancor prima che la sistemassero, non del tutto, fate attenzione.
Alcuni conducenti di pullman e camion rimandano a quelli dell'India, una casta intoccabile e irascibile, con poco senso delle misure altrui. Costoro calcolano la loro, se poi anche voi abbiate lo spazio per passare incrociandoli non pare li riguardi molto. I fuori strada su ciottoli anche grossi erano testimoniati da vetture e altri mezzi inceneriti ai bordi della carreggiata. Col tempo li hanno rimossi; tolto il monito per fortuna si sono applicati nelle infrastrutture. Sintonia, dicevamo. Ve ne accorgerete nel vostro proprio modo prima o poi, se c'è o no. Se accadrà difficilmente cambierete canale. Qui arrivano in tanti, e per molti iniziano i ritorni. Quale che sia il motivo, lo conoscano o meno, qui si sentono bene.
Quella
prima volta, dopo aver cercato in tutta l'Istria e diverse altre isole un posto
che mi attirasse giunsi in questa, fermandomi in un paesino di una ventina di
case abbarbicato sulla collina, che pur se alta appena qualche centinaio di
metri vien da chiamare montagna.
Nella casa per lavarsi si usava l'acqua della cisterna, che condividevo con la vecchia signora sola della porta accanto. Constatato che capivo quella parola, plaza (spiaggia), imparò i miei orari per usufruire di un passaggio, talvolta di sola andata e altre attendendomi per il ritorno. La lasciavo davanti alla chiesa della cittadina affacciata sul mare. Era la seconda persona slava che trasportavo nella mia cinquecento. L'altra fu un ragazzone di due metri e più di cento chili, incontrato sulla strada arroventata per Rabac poco dopo mezzogiorno. Per quanto imponente era del tutto un buon ragazzo che, militare, godeva di un periodo di licenza senza disporre che di qualche spicciolo. Ammetto che anch'io, pur se a quel tempo non mi intimorivano gli sconosciuti avendo usato in un'epoca precedente il medesimo mezzo di trasporto, il pollice verso l'alto, esitai e non mi fermai proprio sul posto. Dovette percorrere una ventina di metri col suo informe zaino e quando salì aprii la capottina perché non dovesse tenere la testa piegata. Rimarrà sempre un mistero dove abbia messo le gambe.
Il paesetto l'adorai subito, non solo per l'incredibile vista di cui si gode. I proprietari risiedevano in una grande casa poco distante, erano contadini e avevano non ricordo se una o più mucche; pecore e capre fin che si vuole ma le prime erano rare nell'isola. Ogni tre giorni prendevo un litro di latte, scambiavo qualche parola e rintuzzavo gli inviti con cortesia. Ero solitario, lo capirono e trovammo l'equilibrio. Il latte era troppo per il mio consumo, ma non volevo rinunciare al ritmo degli appuntamenti. Non getto via le cose, tanto meno il cibo; risolsi il problema facendo cagliare l'eccesso riscaldandolo con del succo di limone e aggiungendo sale e foglioline di salvia. Per spiegare il gusto del formaggio così ottenuto devo dirvi della salvia di quest'isola. In certi punti ricopre del tutto vaste estensioni, di sola roccia, dove nasce e sopravvive senz'acqua. Il clima e qualcos'altro la rendono talmente resinosa da appiccicare le dita. Emana un odore secco, intenso. Ma non è la stessa dappertutto, secondo me. Due posti si contendono il primato, questo è uno, l'altro lo troverete seguitando la lettura. Ce n'è così tanta che modificai il nome in Jugosalvia, un'entità – politica – oramai inesistente mentre la specie botanica ha vita più lunga.
Da quell'avamposto iniziai la perlustrazione dell'isola. Cambiai paese la volta successiva, quindi un'altra, un ritorno in una precedente e così via. Credo che l'anno prossimo, ammesso che il destino me lo permetta, non sarà nella meravigliosa cittadina che oggi mi ospita – pagando il dovuto, beninteso – rivolgendomi a luoghi diversi.
Non so quali motivi spingano alcuni a soggiornare sempre nello stesso paese o città e altri a cambiare di continuo. Ad esempio, una volta sostammo a Zara per qualche decina di minuti prima del ritorno a Cres in catamarano (dopo una visita alle isole Incoronate) e ne approfittammo per un'occhiata, tanto per farci un'idea. Ma oltre al caffè, camminando di buona lena, percorremmo tutto il centro storico, fotografandolo pure. Pensavo che sarei ritornato per una visita più accurata, ma la sensazione fu che era buona la prima, a cui demmo il titolo: in mezz'ora vedi Zara, trovando che suonava bene.
Qualche parola per descrivere il contenuto del libro: racconti, storie e riflessioni riferiti all'autore o al suo alter ego, Mario. Sovente l'uno a continuare quanto l'altro ha iniziato, passando dalla prima persona alla terza e viceversa senza un criterio definito. A lungo mi sono dibattuto se era davvero il caso di mantenere una tale impostazione che può generare un po' di confusione. Sono d'accordo con chi afferma che non bisogna pretendere troppo dalla pazienza dei lettori che già ci fanno l'onore di leggerci, dopo aver speso del denaro per questo. Se alla fine è rimasta questa è perché l'autore e Mario per quanto sovrapponibili non lo sono completamente. Mario era il nome di mio padre, che pur avendo condotto una vita difficile mettendoci del suo per renderla tale anche alla sua famiglia, col tempo si riscattò rivelando gli aspetti migliori del suo carattere. Pur non avendo studiato a volte scriveva poesie, aspre e talora tenebrose ma dalla metrica perfetta. Forse qualcosa del suo talento è risalito geneticamente in me e usando il suo nome riconosco e accetto le mie origini.
Uno pseudonimo, un soprannome o un altro nome con cui farsi chiamare rivela la nostra affinità con la maggior parte dei cristalli irregolari, che pur sviluppandosi da una forma geometrica definita man mano se ne scostano producendo gemmazioni e ramificazioni. Come tutti sono affascinato dai cristalli simmetrici – cubi, parallelepipedi o prismi perfetti – ma la loro forma origina da un ambiente separato. Sono come le persone che divengono un'autorità nel loro campo. Un'immagine definita, una certezza. Un punto di riferimento per tutti i polimorfi e irregolari cristalli di vita che anelano alla loro condizione, struggendosi e spesso limandosi per assomigliargli. Nessuna critica, le cose stanno così, ci piaccia o meno. Abbiamo molto da ascoltare e imparare da queste persone speciali. Ma sono le mani della moltitudine che hanno edificato il mondo dove tutti viviamo, e provvedono alle attività che ne permettono il sostentamento. Interdipendenza, qualcuno indica la strada e molti iniziano a percorrerla, a costruirla nel caso. Dove e come conduca è responsabilità comune, ma chi ne guida cento ne ha cento volte di più.
Le storie del libro, tal quali o costruite partendo da un nucleo reale, provengono dalla vacanza che ho trascorso qui, dove le circostanze mi hanno fatto sentire possibile scrivere la presente opera. Fin dal primo giorno, mentre riposavo dopo il viaggio, una sorta di voce si fece largo: dai, uno spunto per un raccontino... E in quell'impastamento fisico e mentale, frutto di stanchezza e problemi personali ecco qualcosa prender forma, quasi come la sequenza di un film. Devo memorizzarlo – mi dico senza troppa convinzione – prima di appisolarmi.
Al risveglio c'è ancora. Lo riporto in due righe scritte sul biglietto del traghetto – forse un modo per perderlo. Il giorno dopo daccapo: dai, un altro spunto... uno al giorno e in due settimane avrai abbastanza materiale per un libro, di racconti stavolta... Così è iniziata. Qualcosa mi ha preso la mano e ha fatto il vero lavoro. Io ho solo trascritto quanto vedevo e sentivo, venisse da fuori o dentro di me.
È stata una vacanza ma si è svolta come un viaggio, in parte nell'ignoto. Al termine del quale, chiudendo il libro, direte se è valsa la pena di dedicarci un po' del vostro tempo, come mi auguro. Ma vi sarò comunque grato per averlo letto.
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1° capitolo: Anniversario
Da alcuni anni Mario e la moglie, per soddisfare le diverse preferenze, si erano accordati per trascorrere due periodi di vacanza pressapoco uguali in luoghi diversi. Uno in collina e l'altro al mare. Forse anche quella decisione originava dall'apparente senso di sicurezza che proviene dal frequentare luoghi conosciuti; lo stesso che li riportava la domenica o in qualche altro giorno di festa in città più volte visitate, commentando rare cose nuove e molte già viste, seppur con differenti parole.
Adeguandosi al ritornello di quella canzoncina di tempi passati: per quest'anno non cambiare, stessa spiaggia stesso mare... ritornarono nell'isola che frequentavano da vent'anni, spostandosi da una cittadina all'altra. Per il secondo anno consecutivo si stabilirono in quella il cui mare ti accoglie a forma di cuore, mentre lo raggiungi scendendo dalla strada.
L'appartamento precedente aveva una grande terrazza senza nulla davanti a nascondere il mare, a meno di venti metri. Un tendone bianco faceva quel che poteva per mitigare il calore del sole, intensificato dai riverberi accumulati nel percorso sulla grande baia. Ma per quella vista si riusciva a sopportare. L'arredamento, visto il prezzo, lasciava alquanto a desiderare. Almeno il materasso fosse stato decente! Per fortuna rimediarono in parte al fatto che fosse letteralmente sfondato dormendoci di traverso. Il proprietario pesava più di loro due assieme, risiedeva all'estero e lì trascorreva una parte delle vacanze. Certo la posizione valeva qualche sacrificio, ma dopo una certa età le comodità hanno la loro importanza.
Il nuovo appartamento, che già conoscevano avendo l'abitudine
di informarsi sulle varie possibilità d'alloggio per l'anno a venire, aveva un
buon materasso e una enorme pergola di uva pizzutella sostenuta da pali di
ginepro infissi in un basso muretto. Un lavoro eccellente, più di venti pali
verticali e altrettanti orizzontali, lunghi oltre due metri e diritti. Le piante
sacrificate per lo scopo dovevano essere ben vecchie. La proprietaria, che
parlava un buon italiano con cadenza triestina come ancora da queste parti (non
così i giovani, a cui occorre rivolgersi in inglese o tedesco) spiegò che il
marito li tagliò nel bosco più fitto.
E dopo li ripulì, li trasportò per i sentieri sino al mare dove, legati, stettero per mesi a stagionare. L'acqua salsa risalita negli stretti pori del legno, uno dei più compatti e resistenti, li preserverà per decenni da muffe e parassiti pur se esposti alle intemperie.Nonostante la mareggiata che li disseminò sulla spiaggia il lavoro fu portato a termine. Bisognava crederci, e avere la tenacia della gente di questi luog hi, sempre avversata da dure condizioni di vita. Lungo tutta la passeggiata non c'è una pergola come questa, a cui rendo merito.
Una casa nuova – fuori l'insegna la denomina villa – ha usato per la propria pergola del ferro attorcigliato, saldato ad ogni giuntura e piegato a regola d'arte. Chi l'ha fatto ci sapeva fare. Ma non c'è confronto, il lamento del ginepro fossilizzato parla al cuore. Ricorda che si può e si deve usare quello che l'ambiente mette a disposizione. A condizione di rispettarlo, non sprecarlo e facendo un buon lavoro, ottimo in questo caso.
La grande casa affittava un appartamento con quattro letti in due stanze – il loro – un altro studio attiguo, termine di moda per indicare un monolocale, e due stanze nella parte superiore. Lo studio, che sarebbe andato bene anche a loro, aveva una finestra più grande da cui maggior luce all'interno e un arredamento più recente. Ma non ci sarebbe stato modo di prenotarlo per agosto, visto che una coppia lo faceva da molti anni, avendo la precedenza in questi casi.
Non descriveremo fisicamente queste persone, dicendo invece dei loro interessi. Computer e barca a motore il marito, modi diversi di navigare. Giornali e tintarella la moglie, questione di immagine. Per entrambi passeggiate e frequentazioni di bar e ristoranti del posto. Mario aveva troppi problemi in quel momento per dedicarsi alla conoscenza dei vicini.
A parte i consueti saluti, in casa o incrociandosi per strada o al bar, si parlarono solo un paio di volte. Nella seconda, la più lunga, Mario si rivolse direttamente all'uomo intento a navigare via etere col proprio netbook (doveva vederci bene, in quegli impossibili schermi da 12 pollici). Lo fece più per non sentirsi in colpa, visto che il primo approccio si doveva all'altro.
In due passaggi si arrivò a parlare di barche. Windsurf,
gommone e pilotina sino al più modesto attuale kayak gonfiabile per Mario.
Barche a vela, doppiaggio del golfo del Leone e fuoribordo di sette metri per
Rizzola, il vicino. No match, non c'è partita. A nulla serve parlare
delle diverse filosofie di navigazione. Lo potete fare con altri al vostro
livello, o con chi non ha la vostra esperienza, per consigliare. Per chi ne ha
di più contano i metri. Le traversate o le crociere.
Come per il tennis. Nessuno che sia un po' bravo giocherà con un principiante, ci sono gli istruttori per questo. Non è presunzione. È noia. La sensazione di buttare il tempo, di svalutarsi. Fine della conversazione, almeno su quel piano. Ma non ve ne furono altri.
Forse fu un inconscio desiderio di rivalsa che fece scrivere di quell'episodio di cui fu spettatore casuale Mario e che riguardava Rizzola. Ma ne parleremo tra breve, dovendo prima dire della recente passione di Mario, appunto scrivere. In quell'isola ritornò l'ispirazione. Ricercata inutilmente più volte dopo aver spedito il manoscritto del primo libro, un romanzo, ad una decina di case editrici, come si usa fare.
Una sola risposta al momento, forse già qualcosa. Negativa ovviamente. Non gli riuscì facile assorbire il fatto che, per ora, se qualcuno l'aveva letto non destava l'interesse che sperava. Pure un paio di suoi amici, un filosofo regatante e un professore in pensione con l'hobby per apicoltura e musica ne avevano detto bene. Quest'ultimo, che leggeva molto e in più correggeva bozze, gli fece i complimenti.
Ma non c'è garanzia, non solo per questo. Quel mobile chissà quanto resterà in vetrina, quanti editori incontrerà il manoscritto. Si attende, quello che era nelle vostre possibilità l'avete fatto. Da quel punto di vista siete in pace con voi stessi. Ma agognate i vostri lettori.
Che vi leggano e vi giudichino, e ben venga il verdetto. Un libro è un'interfaccia, una porta tra due mondi. Può restare chiusa per sempre... ma quando si apre due livelli d'acqua si dispongono in uno solo. Per il tempo della lettura, il più delle volte. Le grandi opere invece non rifluiscono, le porterete sempre con voi e diventeranno parte della vostra vita. Anche senza rendersene conto.
Il secondo libro di Mario, di racconti, prese la solita strada. Una decina di editori, qualcuno diverso dai precedenti. Si rivolse ancora alla segretaria letteraria di una delle maggiori case editrici, come aveva fatto per il primo. Quella volta pensò di essere stato fortunato, inviò un riassunto (sinossi) e qualche capitolo, nonostante la revisione non fosse stata completata. C'era tempo, pensò. Ce ne sarebbe stato in abbondanza, l'editor della narrativa rinunciò alla lettura dell'opera. La parola ne ricordava sinistramente un'altra, terminator, però in quel film di successo la storia aveva una fine positiva.
Se anche stavolta seguì la stessa strada fu per scaramanzia, come nel tennis quando si è al servizio o nel calcio per i rigori. Ognuno compie i suoi gesti, i suoi riti. Poi va come doveva andare. Se va bene penserete che abbia funzionato, se va male che non li avete eseguiti come dovevate. Andò male di nuovo, ma almeno era preparato. Poi una risposta giunse, da un altro editore. Non interlocutoria. Un appuntamento, per discutere di alcuni aspetti dei racconti, prima della pubblicazione. Addirittura! Trattenendo l'emozione per quel momento tanto atteso Mario fece tutto quanto riteneva utile e acquistò il biglietto del treno per Milano. Di solito si vestiva semplicemente – informalmente, si dice adesso – ma recuperò dall'armadio un cappottino di lana grigia comperato l'anno prima.
Non ne aveva bisogno e già sapeva che l'avrebbe usato poco, per
lui un giubbotto in goretex era l'indumento ideale d'inverno: caldo, leggero e
traspirante. Ma la perfetta fattura e il prezzo dimezzato per via dei saldi
furono più forti delle sue convinzioni. Ogni tanto ci vuole. A onor del vero
bisogna rivelare che all'acquisto si immaginò proprio di varcare la soglia di
una casa editrice con quel po' d'eleganza che non guasta. Per quanto incredulo
quell'immagine stava per divenire realtà. Mise nella borsa il notebook e
diverso materiale cartaceo. Non mancò di rivedere gli argomenti su cui
richiedere spiegazioni, giusto nel caso si arrivasse ad accennare a un
contratto.
Ma che fosse prematuro lo sapeva bene. Durante il viaggio rimuginò sugli aspetti dei racconti da discutere. Chissà cosa intendevano, poteva essere di tutto. Forse uno o più racconti erano un po' deboli, non reggevano il confronto e mancavano del ritmo dei più riusciti. Ma erano pur sempre inseriti nel contesto narrativo, preparando o chiudendo la strada ai fratelli maggiori. Vitali allo stesso modo – se così si può dire d'un racconto.
La critica tuttavia non lo spaventava e si promise di ascoltare con attenzione ogni suggerimento in merito, facendo voto d'umiltà. Tutto questo pensare lo accompagnò ché quasi non si accorse delle molte ore trascorse, sorpreso di trovarsi davanti a quella porta. Beh, bussa, che aspetti?
Non so se tutti gli scrittori abbiano una buona memoria fotografica come Mario. Memoria devono averla di certo, potenziata dall'allenamento nel tenere sotto controllo personaggi ed eventi. Luoghi e sensazioni. Citazioni. E molte, se non tutte le parole usate. A Mario bastò il primo fotogramma visivo per riconoscere l'uomo di fronte a lui, comodamente seduto sulla poltrona, con l'enorme scrivania a difesa del suo spazio. Ne rimaneva poco per l'ospite, e una poltroncina adeguata a quel poco. Si sedette, non avendo ora il minimo dubbio su quali fossero i famosi aspetti dei racconti... li aveva davanti. Quell'uomo era Rizzola, chi l'avrebbe mai immaginato!
«Ti vedo proprio sorpreso, Mario. Lo sarei anch'io. Una fatalità, un caso unico! Avessimo parlato di più l'estate scorsa... chissà, magari mi potevi far leggere quel tanto per farmi un'idea e seguendone lo sviluppo avrei abbreviato i tempi. Perché non c'è dubbio che quanto hai prodotto ci interessa. Ma è un po' colpa mia, qualche anno più di te mi ha impigrito, anche nelle relazioni, e mia moglie dice che diventerò un vecchio brontolone. Comunque ci vorrà ancora tempo... pardon, che sgarbato! Come stai, e la signora?»
Ci fosse un velato rimbrotto in quanto disse non era facile a capirsi. Anche Rizzola conosceva le parole e sapeva come usarle. Ed era in una posizione di forza, tutto dipendeva da lui. L'umiltà di cui fece voto tornò davvero utile a Mario.
«Sto bene, e anche mia moglie, grazie. Sì, una vera
sorpresa... quasi da farne un racconto, se non l'hanno già fatto. Certo che se
avessi saputo chi eri e cosa facevi mi sarebbe stato difficile resistere alla
tentazione di sottoporti qualcosa. Forse è stato meglio così, l'imbarazzo era
in agguato.» - rispose. «Nessun
imbarazzo è lecito quando si tratta di un buon lavoro. Davvero ben fatto,
lasciatelo dire da chi ha letto di tutto; anche adesso, per la maggior parte
cosa c'è in giro? Estenuanti ping-pong di parole, ho fatto questo e
quell'altro... per farla breve quello che manca è il succo, la linfa
vitale, che rimane una volta chiuso il libro, oltre il ritmo, le
ambientazioni e l'intreccio.
Ci sono quadri meravigliosi che sfruttano giochi di luce e prospettiva ma non lasciano il segno. Come sembrano un po' riuscirci quelli del pittore che descrivi; si intuisce l'anelito di fermare parte di quella luce che l'ha affascinato... bello. Non è solo un mestiere di cui basta conoscere la tecnica, occorre avere qualcosa da dire. Per te c'è voluto un bel po' di tempo, no?» - «Sì, abbastanza, ero quasi fuori tempo massimo quando è suonato il campanello.»
Mentre il dialogo procedeva Mario aveva più che la sensazione di dove si sarebbe arrivati. Non c'era nessuna possibilità di evitarlo, Rizzola era diventato un personaggio del suo libro. Non ne aveva usato il vero nome, ma lui si era riconosciuto senza dubbio. Veniva descritta la casa delle vacanze, l'hobby per il computer e la passione per le barche, caricando quel tanto per farci su dell'ironia. Ma aveva sfruttato anche quanto colse fortuitamente un giorno, mentre era seduto nel bar prospiciente il molo, quello più frequentato dalla gente di mare.
Alle sue spalle giunse il responsabile del porticciolo, che chiameremo il capitano, un omone grande e grosso che di quel lavoro si faceva un po' vanto. Ben oltre la sessantina vestiva quasi sempre di bianco, scarpe e cappellino compresi, e arrivava con una bicicletta – abitava poco distante – a orari prestabiliti per controllare i nuovi arrivi, rispondere alle domande e nel caso impartire disposizioni per modificare l'ormeggio. Forse anche per riscuotere il dovuto, perché vide denari passar di mano.
Il porticciolo adiacente aveva un discreto numero di posti barca, ed era coinvolto anche in quello, ma non sapeva a che titolo. Col passar dei giorni, mentre immancabilmente lo incrociava, Mario si rendeva conto che alla persona veniva riconosciuta una certa autorità. Potevate scambiarlo per un tennista nostalgico ma se c'era una barca di mezzo avevate a che fare con lui. Arrivato al bar si sedette a un tavolino dov'erano due persone del luogo e prese a discutere un po' in croato, italiano e triestino assieme, parlati correttamente.
Ma ecco che dalla passeggiata arriva Rizzola. Possedendo una
barca lo conosce bene, ma non fa a tempo a fermarsi né tanto meno sedersi che
quello gli dice: “Ma come ti ga legà la barca, che la sbatteva da tutte le
parti... in tutta la vita non ho mai visto una barca legada così mal...” - è del tutto plausibile che stesse
esagerando, c'era una palese ironia nel suo esprimersi.
Rizzola prontamente cercò di ribattere: “Beh, c'era un po'
di vento, si sarà allentata la cima....”
- cercando di contrastare quella che è vissuta con maggior
insofferenza da tutti i proprietari di barche, da tutti i capitani:
l'insinuazione di non ormeggiare come si deve, il primo comandamento dell'uomo
di mare. La barca prima di tutto. Che sia ben sicura, a costo di controllare
più volte cime e nodi, nonostante qualcuno a vederti possa pensar che non hai
padronanza delle manovre.
Poco deve importarti, l'approssimazione può costar cara. Ma non riuscì a fermare il capitano dal proseguire: “... ma quale cima che in tre l'abbiamo dovuta portar in fora e legarla per bene!” - lo diceva ridendo, come pure v'era un sorriso e un po' di noncuranza sul volto di Rizzola. Ma chi conosce l'ambiente sa che l'umorismo su certi argomenti non viene generalmente apprezzato, tanto meno lo sbandierare in pubblico una tale mancanza.
Mario, che aveva dovuto inghiottire la superiorità del vicino, cercando di compensare i troppi cavalli della barca con la filosofia del kayak o la sua ex pilotina da acque calme con il doppiaggio del golfo del Leone in barca a vela, trattenne il proprio sorriso per non mostrarlo al Rizzola che l'aveva riconosciuto, pur se non salutato. Di storie che succedono in mezzo al mare ognuno ne può raccontar tante, ma un ormeggio è sotto gli occhi di tutti.
Mario ai suoi tempi, per riempire un periodo difficile si iscrisse a un corso per conseguire la patente nautica. Motore ma soprattutto vela, per navigare oltre le sei miglia dalla costa. L'esame pratico finale a vela consisteva in una manovra d'attracco a un moletto posto all'interno di un canale lagunare, usufruendo solo del vento disponibile. Con un esaminatore della Capitaneria e un esperto a bordo, senza ammettere aiuti, nonostante il responsabile del dodici metri in affitto quasi supplicasse di non farla difficile, che i danni chi li pagava dopo? Qualcuno fu bocciato ma a lui andò bene, merito di un po' di fortuna e soprattutto dell'insistenza del suo istruttore, lo skipper che per tutto il corso non perse occasione per ribadire di sbrigarsela sempre e solo a vela. Imparò la lezione durante le molte uscite invernali nel canale col sette metri in alluminio della scuola: vento o non vento, nebbia o non nebbia e un freddo che entrava nelle ossa; mantenendo la calma per finire il bordo nonostante il suono spaventoso della tromba della petroliera che se non ti saliva sopra – precedenza, ovviamente – poteva coll'onda depositarti in secca.
La lezione è una sola, ne sai sempre troppo poco. In tutti i porti dell'isola – e non solo in questa – le barche a vela non si contano da quante sono, di tutte le dimensioni. Arrivano e raccontano storie di venti e manovre, descritte con i corretti termini marinari. Ma Mario si domandava, al pari del suo istruttore, perché non arrivano a vela e ripartono a vela? Finora non ne ha visto uno, tutti col loro motore ausiliare... si sa bene che non è semplice, ma se lo fai, sventando all'ultimo e arrivando con un pelo d'abbrivio davanti agli occhi di tutti, sei un vero velista, giù il cappello! Si parlerà più di quell'arrivo a vela che di cento manovre in un mare tempestoso.
Non c'è nessuna critica per chi preferisce la sicurezza – sennò chi li paga i danni? – ma quelle barche in arrivo o partenza col loro motorino ricordano i gabbiani che si contentano dei facili scarti. Potrebbero fare ben altro nell'acqua, come nel cielo fece un uccello così ben descritto nel libro – poi divenuto un film – “Il gabbiano Jonathan Livingston”, di cui ricordiamo le splendide musiche.
L'episodio del capitano e della barca legata male l'aveva scritto, e lì si sarebbe arrivati, inevitabilmente. Non serviva che Rizzola glielo dicesse apertamente, quando cominciò a parlare di aggiustare qualcosa in qualche capitolo gli fu sufficiente il mezzo sorriso e lo sguardo diretto. Che comunque per non lasciar dubbi mise lì: «Sai, qui mi conoscono tutti e con tutti vado d'accordo. Ci sono voluti anni di lavoro ma adesso quello che dico, nell'interesse dell'Editore e dello scrittore non ho bisogno di ripeterlo, neppure di spiegarlo. C'è fiducia. Ho sbagliato poche volte, ma era tempo fa...»
Chiunque lavorava là sapeva dei suoi svaghi, dove andava e quello che faceva. Amava parlarne senza chiedersi se era vero interesse l'ascoltarlo o se in parte dipendeva dalla sua posizione. Le cose andavano così e a lui stava bene. Se quel capitolo veniva pubblicato chiunque nell'ambiente di lavoro l'avrebbe riconosciuto. Non poteva accettare che la sua immagine venisse scalfita da poche righe, di un'esordiente per giunta! Un po' d'autoironia ce l'aveva, e l'avrebbe usata nel caso quel libro gli fosse sfuggito trovando un altro editore. Cosa difficile, comunque.
Perché era disposto davvero a farlo pubblicare e fu sincero quando ribadì che si trattava di un buon lavoro, doveva solo neutralizzare quel riferimento a sé. In quanto agli altri editori molti li conosceva e gli dovevano dei favori, e questi sicuramente ne attendevano da quelli che non gli sarebbe stato possibile raggiungere. C'era di mezzo molto più di quanto Mario potesse immaginare, come avrebbe presto scoperto. In ogni caso, un capitolo su quindici... lavorandoci sopra si poteva fare, era uno scrittore, no?
«Rizzola, mi rendo conto che nel capitolo Ricorrenze puoi essere facilmente riconosciuto dai tuoi colleghi. Non era mia intenzione, non avevo la minima idea di chi fossi. Un caso fortuito. Ho preso uno spunto come un altro, non c'era niente di personale – disse mentendo – cambiando qualcosa non sarai più identificabile.» - l'altro non replicò, il patto era siglato. Mario peccò di ingenuità ritenendo di potersela cavare solo con qualche aggiustamento.
Rizzola volle condurlo a visitare l'ambiente di lavoro, i numerosi uffici dove raccoglieva un saluto e un sorriso ogniqualvolta si affacciava. Lo presentò a molti tirando in ballo il proprio intuito, bene assistito poteva avere delle chances. Niente da dire, se lo stava lavorando proprio bene. Ma a che scopo, visto che quello che voleva l'aveva già ottenuto?
Anche Rizzola, come molti, aveva problemi in famiglia. Il suo
era un rapporto di lunghissima data e non c'erano stati figli a riempirlo. Solo
lavoro e vacanze. Relazioni con amici che lo cercavano e lo invitavano da ogni
parte per la sua giovialità, e perché no, per la riconosciuta capacità al barbecue.
Lui e la moglie non mancavano mai. Almeno fino a ieri. Da qualche tempo le
cose non erano più le stesse per la signora. Una sorta di inquietudine cominciò
a manifestarsi e quello che prima la soddisfaceva ora otteneva l'effetto
contrario. Rizzola se ne accorse e un senso di smarrimento si impadronì di lui.
Cercò di reagire ma più metteva e meno otteneva.
Avrebbe fatto qualunque cosa, la sua donna era la sua vita,
la sua sicurezza. In più gli acciacchi dell'età gli toglievano energie. Pensò,
rabbrividendo, che non ce l'avrebbe fatta a risollevarsi dall'eventualità di
una separazione. Le stava provando tutte ma non funzionava nulla, si sentì
perso e lo sconforto stava per avere la meglio su di lui, che fino a poco prima
reagiva sempre in positivo ai problemi. Ancora poco e non avrebbe più retto,
aver ricorso ai tranquillanti era un brutto indizio.
“L'occhio di Vrana” – lesse il titolo del primo manoscritto che la sua segretaria aveva selezionato tra i molti e immediatamente rammentò che l'isola dove andava da anni aveva un lago con quel nome. “Racconti da un'isola” – il sottotitolo; forse non era un caso, l'isola poteva essere la sua. Per quella sera pensava al massimo di leggere i titoli dei lavori, e aveva già preso un tranquillante per aiutarsi a dormire, nella stanza dove adesso era solo. Ma usò buona parte della notte per leggere il manoscritto, ricorrendo a diversi caffè ben forti.
Che fatalità! Capì chi fosse l'autore e lo trovò interessante, ovviamente tolto il riferimento a sé. Riguardo alla propria situazione era da tempo che aveva rinunciato a pensarci, ma quella lettura gli fece venire un'idea e cominciò a lavorarci su. Se avesse qualche possibilità non l'importava al momento, almeno aveva trovato qualcosa da fare, un altro tentativo per una strada inaspettata. Se non hai nulla cui aggrapparti, per un po' anche la speranza ti sostiene. Dormì bene il resto della notte, come non gli accadeva da tempo.
E la mattina dopo si mise subito all'opera. Chiese alla Teresa, la fidata segretaria che lo conosceva da sempre, chi l'aveva mandato, per sapere se qualcuno che lo conosceva potesse aver letto quel capitolo, “Ricorrenze”, fortunatamente collocato a ben più di metà libro.
«Nessuno, capitano» - rispose la donna aggiungendo quel
titolo che gli dedicò per gioco un giorno di molti anni addietro. Poi vedendo
che gli faceva piacere continuò, usandolo ogni volta non vi fossero altri
presenti. Lui in cambio la chiamava madonnina, riferendosi a quella del
Duomo che dall'alto sorveglia e protegge Milano e chi ci risiede.
Un modo di dirle quanto fosse importante per lui. «Come nessuno? L'hanno forse dato a te?» - «No, è arrivato da solo, spedito qui direttamente» - «Ma sono anni che rifiutiamo manoscritti, figuriamoci per posta! Perché allora non l'hai cestinato, dedicandoti solo a quelli che provengono dai nostri canali?» - «Era quanto stavo per fare quando ho letto il titolo, ricordandomi la storia di quel lago che avete raccontato a me e al Pierluigi. Ho letto solo il prologo e ho ritenuto, una tantum, che gli si poteva dare una opportunità. In ogni caso spetta a voi decidere, capitano.» La somma di circostanze era sospetta, quasi una forza sostenesse un disegno nascosto.
Ma andava bene, nessuno ne sapeva niente. Disse alla Teresa:
«Hai fatto la cosa giusta, come al solito. Ammiro il tuo intuito,
effettivamente l'ho trovato interessante. Senti cosa devi fare adesso...» - gli chiese di spedire subito una lettera
d'invito per Mario e di attivare le sue conoscenze per individuare quali altri
editori l'avessero ricevuto, non certo per sollecitarli alla lettura.
«Quest'ultima cosa l'ho già fatta stamattina appena vi ho visto, e ho i primi
riscontri» - «Ma com'è possibile?! Come potevi immaginare che te l'avrei
chiesto?» - sorpreso era dir poco.
Va bene la sintonia e quello che ci va insieme in un rapporto
di lavoro di lunga data, ma arrivare ad anticipare le intenzioni aveva quasi
del paranormale. «Capitano, sono mesi che vi vedo sempre più giù, e sapete
quanto me ne dispiace. Tuttavia stamani siete arrivato come quello dei bei
tempi, portandovi il manoscritto sotto il braccio. Quello e non altri. Ho
capito che l'avete letto e vi interessava, e mi sono mossa per tempo.» - «Come al solito, madonnina,
insuperabile!» - «Come al solito
capitano, pronti al viaggio!»
Al secondo appuntamento Mario portò il capitolo revisionato. Del Rizzola non c'era più traccia. Restò di stucco quando gli disse che non intendeva venisse tolto, modificato leggermente, questa era l'intenzione. Non ebbe animo di chiedergli perché non gliela avesse detta subito tale intenzione, avrebbe risparmiato del tempo. Ma non voleva mostrare impazienza, tanto meno oggi che si sarebbe iniziato ad accennare al contratto. Rizzola l'aveva fatto ricevere come uno che conta, subito servito di caffè e brioches, dalla pasticceria di sotto. Lo trattava ormai come se lo conoscesse da sempre, anche di fronte ad altri impiegati. Mario era sbigottito, perché faceva a quel modo, cosa c'era sotto?
«Vedi Mario, leggendo il libro si comprende che hai avuto dei problemi in famiglia. Spero superati, adesso. Succede a tanti, nonostante le buone intenzioni, succede anche a me.» - gli disse dei propri con la moglie e come fossero vicino al punto di non ritorno. Volutamente o meno non nascondeva la sua pena, e gli chiese se potesse, poca cosa, dargli una mano. «Lo farei di cuore, ma sono estraneo alla situazione. Come potrei aiutarti?» - «Nel modo che sai fare, con la penna.» - e gli spiegò il suo piano, frutto di quella notte quando in lui si riaccese la speranza.
Nel libro, che la moglie avrà in anteprima, loro due apparirebbero come una coppia affiatata, che stimolò lo scrittore tanto da annoverarli tra i personaggi principali in un racconto. Ovviamente bisognava far le cose per bene, senza esagerare e dare l'impressione di un voluto rimaneggiamento. Senza dar troppo nell'occhio dovrebbe risaltare l'immagine di quell'uomo forte pronto a tutto per difendere la propria compagna. Tanto da evocare personaggi mitici, che durano nei tempi come i loro amori. Lo scopo recondito quello di far riconsiderare alla donna quale reale perdita vi sia ad allontanarsi da una tale persona, affidabile e protettiva. Un rapporto non concesso a tanti, raro. Più o meno le cose stavano in questo modo.
Mario pensò che doveva essere proprio messo male se credeva in tale possibilità, poi realizzò che lui doveva renderla reale. A parte la difficoltà era una cosa completamente fuori dal suo modo di sentire e di fare, quasi un lavoro a tema. «Saresti capace?» - domandò Rizzola per metterlo alla prova, rifacendosi a quanto si ritiene possibile per gli scrittori, riscrivere la realtà. Inventarla. Mario non si tirò indietro. Per mille motivi, ma anche perché si sentì sfidato. Proprio quello su cui contava l'altro, che li conosceva gli scrittori e sapeva come difficilmente rimangano indifferenti alle sfide.
Al terzo appuntamento il capitolo era completamente riscritto. Perse il conto di quante volte lo ricominciò daccapo, insoddisfatto. Ma finalmente “girava”. Era diventato tutt'altro dall'originale, tanto che disse di dover pensare a un nuovo titolo. Rizzola gli chiese di attendere che l'avesse letto con calma, allo scopo fece accompagnare Mario in giro per Milano dalla Teresa (che di tutti i compiti che gli affibbiava questo proprio lo odiava) offrendogli il pranzo in un locale rinomato – il girarrosto. Al loro ritorno Rizzola pareva soddisfatto. Sulla scrivania c'erano della nuove carte, messe in disparte. Mario ci vedeva bene da lontano, si trattava di contratti standard. Non restò indifferente neanche a quello.
«Quasi ci siamo, Mario. Davvero notevole! Per il titolo avrei un suggerimento – Anniversario – sempre di ricorrenze si tratta, no?» - «Sì, ma non ha agganci con la storia, come ti è venuto in mente?» - «Mi ero scordato di dirti che in quei giorni io e mia moglie festeggiamo il nostro anniversario, potrebbe starci, basta fargli un po' di posto.» - il famoso voto d'umiltà fu messo a dura prova e da solo non sarebbe bastato a contenere la reazione dello scrittore. Fu lo sguardo apparentemente distratto del Rizzola verso i fogli del contratto a ricordargli cosa c'era in gioco. Se aveva fatto trenta poteva fare trentuno, era uno scrittore, no? Ormai si era compromesso abbastanza, qualcosa in più non faceva differenza.
«Capisco, certo che si può fargli posto. Magari se me lo dici subito chi altro vuoi invitare...» - «Su, su, siamo diventati amici no? Non c'è che questa piccola aggiunta e la storia è perfetta! Per quanto riguarda i capitoli e il loro contenuto siamo a posto! È già tempo che si cominci a parlar d'altro, sai cosa intendo vero?» - «Beh, posso immaginarlo.» - «Bene, bene! Solo una piccola revisione all'indice e il gioco è fatto!» - «Revisione a che?» - «All'indice, Mario. Ascolta l'idea. I titoli saranno per ordine alfabetico, non ci hanno ancora pensato, te lo assicuro! Così destiamo l'attenzione! Lo useremo come introduzione per la presentazione. Credimi, funzionerà, te lo dice uno che ne ha sbagliate poche...» - «... ed era tempo fa, ricordo quando lo dicesti...» - concluse sconsolato.
Anche questa! Stava quasi pensando di trovarsi nel posto sbagliato quando Rizzola gli mise in mano il pacchetto di fogli, dicendogli di guardarseli a casa con calma, così da essere pronti per l'ultimo incontro, prima del via. Avrebbe voluto replicare che, guarda caso, con quella bella idea dell'indice alfabetico “Anniversario” sarebbe diventato il capitolo d'apertura. Proprio quello che sentiva meno suo. Ma non ce n'era bisogno, era studiato apposta. La moglie del Rizzola non regge che poche pagine... doveva trovarlo subito l'interesse a procedere.
Riscrive nuovamente il primo capitolo inglobando l'anniversario del Rizzola, ed evita di rileggerlo accuratamente per non pentirsene; quindi comincia a lavorare sui titoli dei capitoli per mantenerne la successione originaria nonostante l'ordine alfabetico.
Il 1° è quello, "Anniversario". Meglio non pensarci più.
Il 2° lo sistema al posto giusto aggiungendo davanti al
titolo “Denari e”, anche se la stringata “Lotterie” era più
consona al contenuto, ma tant'è, anche di denaro si parla.
Al 3°capitolo “Bar e laghi” inverte i nomi, salvo poi
cambiarlo nuovamente dopo aver modificato il 4° e il 5°. Alla fine diventa “Diecimila
laghi”, non suona male ma mancano i bar, ugualmente importanti.
Il 4° lo cambia in “Incontri”, generico ma sempre
efficace.
Lo spasmo allo stomaco si manifesta al 5° – inizialmente solo
“Vento” – lì deve mettere l'articolo e aggiungerci pure
l'aggettivo indefinito – altro – con un risultato non proprio
convincente (L'altro vento). Si consola pensando di essere a un terzo di
strada, non lontano dal giro di boa.
Coraggio, possiamo farcela!
Così il 6°, Brix e il diavolo, assume la forma
articolata di “Senza dubbio il diavolo, signor Brix” che gli ricorda il “...
dottor Livingstone suppongo?”
Non che gli dispiaccia il “sense of humour” ma
servirsene proprio nel titolo dà l'impressione di un raccontino leggero, mentre
si tratta di tutt'altro. Quel titolo però finisce per piacergli, usandolo anche
come frase nel racconto. Il traguardo della pubblicazione si profila - in fin
dei conti senza troppi compromessi.
Giunti al 7°, “Immagini al telefono” realizza di dover
iniziare ancora con “s” o le poche restanti lettere – perbacco, l'aveva fatta troppo facile!
Dando un'occhiata agli altri titoli da modificare si rende
conto che per fare le pentole ne dovrà gettare i coperchi. Accadeva qualcosa
troppo al di là di una normale revisione a scopi editoriali, c'era dell'altro –
senza dubbio il diavolo – che pretendeva il suo compenso per
averlo inserito nel libro senza la dovuta considerazione.
A questo punto i dubbi divengono macigni... c'è da rifare tutto daccapo. Si sente costretto a rileggere il primo capitolo, nonostante si fosse ripromesso più volte di farlo dopo aver completato tutti i titoli. Ripensa all'originale ormai cestinato, se anche volesse non avrebbe il coraggio di resuscitarlo dopo tanto accanimento che l'ha reso un alieno. Va bene intervenire su un racconto, ma così modificato non “tiene” come l'altro, incentrato sulla “ciclicità” come possibile origine dei dejà vù, di malattie e disgrazie che si accaniscono su talune famiglie, così come fortuna e salute per altre. E di una ciclicità di tale portata, oltre l'arco di tempo della vita umana, ha fatto uso per parlare dell'anniversario di matrimonio dell'editore!
Anche passando sopra a tutto ciò e sorvolando sulla pochezza della nuova trama, la collocazione al primo posto, l'inizio del libro, gli si rivela per quello che è: una palla al piede capace di trascinare a fondo l'intera opera. Al Rizzola il libro non interessava veramente; meglio, non lo interessò più quando vide in esso il cavallo di troia per giungere a Elena, puntando tutto su quel capitolo per il suo scopo. Tuttavia un intento nobile, riguadagnare l'amore e la stima della moglie, prima che fosse troppo tardi.
Ma quello che davvero lo convinse a reagire, finalmente a opporsi e ad abbandonare anche stavolta la speranza della pubblicazione imminente, fu il pensiero di quelle decine di persone che aveva conosciuto alla casa editrice a cui sarebbe prima o poi arrivata la storia di quel racconto e del libro. Beh, non ci avrebbe fatto una gran figura, e già gli pareva di sentire i commenti, non distanti dalla verità: eh sì, pur di pubblicare... Ma anche per rispetto ai possibili, futuri lettori non poteva arrivare a tal punto. Fu quella grande sceneggiatrice, Suso Cecchi D'amico (ladri di biciclette) che disse più o meno una cosa del genere: “Fai i film che piacciono a te; se avranno fortuna ci sarà qualcosa di tuo dentro e se varranno qualcosa sarà per questo.” Cambiando film con libri si adattava al suo caso.
Ormai il primo racconto aveva subito tali e tanti
rimaneggiamenti da convincerlo a scrivere di questi, di come era arrivato
dov'era. Il suo posto, dopo tante battaglie, se l'era conquistato, pagando il
prezzo di divenire tutt'altro. Questo che state leggendo. Tutta la fatica e la
pena che gli richiesero gli avevano fatto acquistare un senso, almeno a suo
parere.
Il titolo “Anniversario” lo lasciò, spiegando che è dedicato a una persona che gli ha fatto capire l'importanza di seguire la propria strada, e ogni qualvolta ci sarebbe riuscito sarebbe stato l'anniversario della propria nascita come scrittore. In un moto d'elevazione identificò la persona nel Rizzola che mettendolo alla prova ne trasse le qualità migliori.
Andò al quarto appuntamento e dette il manoscritto finale al Rizzola, dicendogli di prendere o lasciare. Lui lesse l'indice e il primo capitolo in piedi. Anche se vedeva sfumare il suo piano non poté fare a meno di apprezzare l'integrità del Mario, pur se all'ultima chiamata. In quel momento non provava alcun desiderio di rivalsa, la storia era andata avanti già abbastanza.
Non era lo stesso uomo di due mesi addietro, quando diede avvio al piano, da allora aveva smesso con i tranquillanti. Gli erano tornate le forze e l'interesse per il lavoro, che tenevano lontano dalla sua mente per un bel pezzo della giornata il pensiero ossessivo della rottura con l'amata moglie. Adesso non era così tremendo, quasi riusciva a farci fronte. Stranamente anche lei sembrava più disponibile nei suoi confronti. A Rizzola in quel momento non importava neppure più che il racconto parlasse di lui, della sua vita. E poi, quale vita? Un racconto è una realtà romanzata, con ampie licenze interpretative.
Al dunque, che fare del manoscritto? Ci pensò la Teresa che prendendolo dal tavolo, in mezzo ai due che si guardavano come in stallo disse: «Non si naviga per tanto tempo senza sbarcare, siamo arrivati in porto, capitano.»
Lei conosceva l'intera storia, compresa quella della moglie. Quelle vite si erano intrecciate e non si poteva buttarle a mare. Fu per questo che lo chiamò per la prima volta capitano davanti al Mario, perché lui era diventato uno di famiglia.
P.S. Dopo averne spiegato il motivo, i titoli dei primi 6
capitoli sono rimasti quelli modificati, compensando in tal modo anche il
diavolo per la partecipazione.
P.P.S. Il libro, prima della pubblicazione, venne letto dalla moglie del Rizzola che sorrise dell'imbarazzo del marito di fronte all'altro capitano che gli legò la barca. Si meravigliò e commosse allo stesso tempo del tentativo di arrivare a lei con il cavallo di troia del libro. Poteva immaginare quanto dovette costargli chiedere al Mario di aiutarlo, lui, che non chiederebbe neanche l'anestesia dal dentista! Grande e grosso e tuttavia vulnerabile gli fece tenerezza, come quelle prime volte...
Lesse tutto il libro e ringraziò Mario, riconoscente. Gli disse che probabilmente il cavallo non avrebbe funzionato, ma la verità di come andarono le cose le rivelò quanto fosse presente nel cuore del suo uomo.
A proposito, non era vero che reggeva solo poche pagine... dipendeva dalle pagine.
Quella mattina Mario, dopo il solito caffè, comperò il
giornale, un biglietto di una lotteria istantanea e telefonò alla ditta che
stava eseguendo dei lavori a casa sua.
Anche questa volta ci sarebbe stato un altro mese di
ritardo... era diventato normale e non ci si poteva far niente, a parte
arrabbiarsi senza ricavarne se non un brutto inizio di giornata.
Ci sono periodi nella vita in cui si accumulano ogni sorta di
difficoltà, dai problemi di salute a quelli di lavoro, da quelli legati alle
cose ed oggetti del vivere quotidiano a quelli ben più delicati di relazione
con le persone.
Riguardo ai problemi fisici la lombalgia lo perseguitava da
sempre, costringendolo ormai a svegliarsi ogni volta dovesse cambiare posizione
nel letto, rischiando altrimenti un movimento oltre la ridotta escursione che
potevano tollerare le sue vertebre, gravate da decenni di episodi acuti.
Prima di levarsi dal letto passava in rassegna questo ed
altri acciacchi per vedere se anche per quel giorno la famosa tegola lo avesse
risparmiato. Scampato il peggio ai disagi ci si abitua, per esempio alle mosche
volanti (miodesopsie), quel fluttuare di filamenti e raggruppamenti dal
grigio al nero davanti agli occhi. Quando lo disturbavano troppo nella lettura
spostava velocemente gli occhi da una parte, sì che l'inerzia li conducesse ai
bordi della visione.
Non funzionava sempre e nei casi ostinati non restava che
fare o pensare ad altro.
Mal comune... in internet vi è praticamente una
collettività per ogni malanno, rispetto ad altri, molto più giovani di lui, era
un privilegiato.
Ma non c'era verso di venir a patti con quell'altro disturbo
ad un orecchio che gli faceva sentire distorti i suoni alti e ben poco quelli
bassi, influenzando a volte anche la corretta percezione dell'altro padiglione.
Contava di abituarsi pure a questo, anche se al lavoro – un
lavoro di relazione con altre persone – a qualcuno aveva dovuto divulgare la
sua condizione. Molto di controvoglia, perché non amava parlar di sé e men che
meno dei propri problemi fisici; ma tant'è, se qualcuno ti chiama e passi
dritto devi pur dirgli che non ce l'hai con lui.
Non era la menomazione in sé che lo affliggeva, piuttosto la
sensazione di avere l'orecchio tappato a causa di una depressione interna, il
tutto condito da suoni, tinniti e fischi continui, la cui intensità a volte
sovrastava l'audio esterno. Scoprì che un collega ne soffriva e quello divenne
l'argomento principale dei loro discorsi, ma nessuno dei due riportava notizie
di cure risolutive e senza controindicazioni.
L'evoluzione di tale malanno – a volte pressione alla testa e
altre poco senso dell'equilibrio – poteva indicare una labirintosi, parola
del tutto azzeccata riguardando sia una specifica zona dell'orecchio interno
che il frustante tentativo di risalire alla causa, potendo essere di tutto. Un
labirinto, appunto.
Qualcuno crede che una volta dato un nome a un disturbo
questo si delinei e agisca sempre più come ci si attenderebbe da esso.
Quando si tratta della salute le strade divergono, c'è chi si
affida senza indugio agli specialisti, chi attende e chi non fa nulla,
lasciando che le cose seguano il loro corso.
In tal modo attese la fine un amico di Mario.
Di questa persona si era ripromesso di trovare un po' di posto per ricordarlo quando ne avesse avuto l'opportunità. Questo è il luogo e il momento per farlo.
Gianni aveva passato la settantina quando il suo corpo decise
di staccare la spina.
Morì nel suo letto circondato dall'affetto della compagna e
altri amici che lo visitarono e un po' stettero con lui, tra i quali Mario.
Non sarà la cronaca di un decadimento e della dignità cui
fece fronte lui e chi gli stava accanto ai seri problemi di tale condizione.
Perché sono situazioni abbastanza frequenti, basta guardarsi
attorno, spesso in casa propria.
Non sarà un necrologio, a evidenziarne meriti e virtù e
tacerne difetti e debolezze.
Sarà qualcos'altro, un'indicazione della scia lasciata
nella vita di chi l'ha conosciuto, soprattutto un'ipotesi del perché quel
tipo di scia.
E un saluto, tra i due – addio e arrivederci – meglio
quest'ultimo, magari in un bar per un cappuccino. Anche se pur usando il primo
si arriva, secondo una famosa marca di caffè, più o meno in un posto simile. La
quotidianità nel divino, forse non diversa dall'inverso – il divino nella quotidianità
– avendo la capacità o la fortuna di coglierlo.
Mario conobbe Gianni nel 1979 in una cittadina svizzera.
Avevano età diverse ma erano là per lo stesso motivo,
ascoltare un uomo fuori dall'usuale, un indiano, dai cui discorsi e conferenze
sono stati pubblicati decine di libri, nonché prodotti innumerevoli video e
pagine internet per chi voglia saperne di più.
E loro, cosa volevano sapere? In realtà non fu una domanda a
condurli in quel posto.
Se pensiamo che quanto facciamo sia il risultato di
un'azione, di una domanda, guardiamo la cosa da un punto particolare della
nostra scia vitale, che ha uno sviluppo prima e dopo quella domanda.
Quell'uomo usò diffusamente, sicuramente per primo in tal
modo, una parola che nel tempo ottenne un certo successo: olistico.
Vuol dire unito, tutt'uno, globale. Si rifaceva a quella per
descrivere la vita come un'unità cui tutti sono collegati: tu sei il mondo.
Le parole affascinano, specie se chi le pronuncia ci ha
dedicato tutto il suo tempo a sceglierle, usandole poi con cura. Se qualcosa di
quanto disse resisterà negli anni a venire non ha molta importanza, perché nulla
resisterà al tempo.
Ma quando le pronunciò quelle parole furono il veicolo usato
da qualcos'altro per intervenire
sul corso delle scie di vita di diverse persone.
Di Gianni, e un po' anche di Mario.
Gianni divenne tutt'uno con quelle parole. Racchiudessero la verità, realtà, saggezza o fossero solo estrema capacità di sintesi e oratoria lo deciderà ognuno. Mario seppe alfine che per l'amico non erano vuote e l'hanno accompagnato nella vita, come altre per noi.
Se non fu una domanda, cosa li portò là?
Trent'anni fa avrei risposto in un certo modo, vent'anni fa
in un altro. E così via.
Non è questione di coerenza o di avere le idee chiare,
dipende da dove ci si trova (sulla scia) mentre cerchiamo la risposta.
Da dove ora osservo la questione dico che fu la lotteria, pregandovi di attendere la fine prima di giudicare se tale nome sia appropriato.
Ve ne sono di tanti tipi, la maggior parte come tutti sanno
ha a che fare col denaro.
Oppure con la fortuna – essere assunto è stato come
vincere al lotto.
O con l'imponderabile – bastava un secondo e quella
macchina sarebbe passata... – non sempre va bene, anzi.
Senza allungare la lista diciamo che sono indicazioni di una
presenza nella creazione, in cui opera con modalità proprie e autonome.
Assolutamente incontrollabile e imprevedibile.
Non pensate che mi azzardi a entrare in discussioni sul
libero arbitrio, destino e karma.
In questa sede voglio riferirvi una sensazione, per quanto
difficile da rendere chiara.
Alcuni esempi:
- Tutto lasciava prevedere lo scoppio della guerra – ma non
accadde.
- C'erano scialuppe a sufficienza ma il panico ha avuto la
meglio.
- Le probabilità che dalla missione Apollo 13, a causa
dell'esplosione dell'ossigeno, il suo equipaggio potesse far ritorno sulla
terra erano minime – ma si sono salvati tutti.
Spesso abbiamo la certezza che le cose andranno in quel
modo, bene o male che sia.
Perché è il più logico, tutti gli elementi portano in quella
direzione. Errore di valutazione?
È possibile, anche se convince di più la sensazione che sia
accaduto qualcosa di eccezionale.
Per alcuni un miracolo.
Non per me, che propendo per la lotteria. Una sorta di intervento
compensatorio dei necessari squilibri universali, galattici, planetari e infine
umani.
La creazione procede da uno squilibrio, come dicono anche i
fisici.
Non si arriverà mai all'equilibrio immutabile in nessun
ambito, tutto deve cambiare perché la creazione proceda.
Ma se le cose andassero troppo male potrebbe rompersi il giocattolo, ogni tanto il sistema va riequilibrato qui e là, per compensarne lo sbilanciamento.
Il riequilibrio è l'azione della lotteria.
L'intervento è sicuro, ma come, dove e perché rimane un mistero. Dico lotteria
e non miracolo. Quest'ultimo indica una direzione, il divino.
La lotteria non indica niente, agisce.
Non è una forza, positiva o negativa che sia.
Non è un'energia, non le serve, usa nel caso quella infinita
della creazione.
E produce effetti grandiosi come microscopici. Ha carta
bianca.
L'essere umano ha percepito la sua presenza, assolutamente
impossibile da comprendere e da decifrare. Nel volerla descrivere l'ha tradotta
in modi approssimati che mi astengo dal riportare.
Ma ha potuto copiarne alcuni attributi per i suoi giochi,
quelli che riscuotono maggior successo.
Pure sono i più stupidi, grattare un biglietto o scrivere dei
numeri per vincere milioni.
Ora entriamo nel cuore della questione.
Perché ho la sensazione che la lotteria abbia un occhio di
riguardo per l'uomo?
Perché non siamo ancora stati annientati da uno dei milioni di asteroidi – se non siete impressionabili cercate in internet le mappe aggiornate – del nostro sistema solare?
Non è detto che non accada, prima o poi.
Perché la lotteria non ha il compito di proteggerci, non ha
sentimenti. Ma affinità sì.
Con quei ridicoli ominidi e i loro biglietti della fortuna.
Con i giochi in genere.
Nella sua forma più conosciuta frequenta i Casinò e luoghi
simili.
Ma la regola è che migliaia devono perdere perché uno vinca.
Non dimenticate, riequilibra, non sovverte. Non si
oppone al disequilibrio senza il quale non esisterebbe, e agisce trovando il
momento, il luogo o la persona giusta perché non l'abbia vinta.
Nell'infinito tessuto della creazione lo squilibrio non può
individuarla e fargliela pagare, poiché non ha regole, non ha direzione, sbuca
dove meno te lo aspetti.
Dispensare la fortuna è una delle sue azioni, non essa.
Fu la lotteria a condurre Gianni e Mario in Svizzera.
E vent'anni dopo a farli rincontrare per ascoltare l'altro indiano
dal medesimo cognome.
Potremmo dire che sono stati fortunati per questo, le loro
vite hanno preso una direzione in cui hanno trovato un senso, anche se
qualsiasi altra l'avrebbe ugualmente avuto.
Tuttavia fu quella la vincita, per entrambi.
Gianni si è trovato tra le mani un biglietto con il quale
potere intervenire sulla propria vita.
L'ha afferrato e usato, com'è giusto che sia.
Come l'abbia fatto non mi riguarda, non so giudicare me
stesso, figurarsi un'altra persona.
La vincita ha riunito i due per un po' prima della fine di
uno di loro.
Gianni man mano perdeva memoria, parole e percezione di sé.
Ma quella vincita non l'ha mai abbandonato e l'altra faccia
del biglietto forse gli ha consentito di intervenire sulla propria morte,
dandogli un po' della forza necessaria per affrontare il destino a viso aperto.
Da quell'evento altri hanno tratto qualcosa, riequilibrando in tal modo la dura realtà della fine e incoraggiando la sua compagna ad andare avanti, dopo aver dato e fatto più del possibile.
Solamente adesso Mario ha capito cosa avevano in comune.
Quanto resta del biglietto basta per un cappuccino al bar,
alla tua memoria.
Il divino nel quotidiano.
Arrivederci, Gianni.
........................
Dicevamo che quella mattina, il giorno prima di partire per
l'isola – Mario e la moglie – tutti i nodi vennero al pettine.
Una casualità, come ottenere più volte consecutive due sei
lanciando una coppia di dadi, o qualcos'altro?
A lungo pensò se era il caso, in quelle condizioni, di
mettersi in viaggio come se niente fosse.
Si trovava in uno stato alterato, di reazione, per il quale
non c'erano parole e riflessioni adatte a smorzarlo. Ma i fatti – la
montagna di bagagli già caricati, dovuta alla mania di portarsi appresso una
parte della casa, l'appartamento prenotato e altri particolari minori –
bastarono a sfiatare quel tanto la pressione e a ritrovarsi in auto il giorno
dopo.
Dal biglietto di una lotteria istantanea acquistato il giorno
innanzi non venne alcun aiuto.
Forse intervenne quell'altra lotteria, di cui abbiamo
parlato precedentemente.
Non per trasformare un mezzo disastro in un paradiso ma per
sgomberare almeno un canale della sua mente dai residui di troppe emozioni,
dovute a ogni sorta di problemi.
In quel canale adesso qualcosa poteva passare, dipendeva da lui.
Nel prologo è spiegato come successe, semplicemente.
Ma cosa davvero accadde lo scoprì pian piano.
Nonostante la bellezza della natura attorno lo accarezzasse
senza posa la situazione non dava segni di migliorare, tuttavia attraverso quel
canale una forza incontrata in passato si ripresentò.
Prima sottovoce e man mano con maggior insistenza impose la
sua presenza.
Non giudicò i comportamenti né le reazioni: “Segui la tua natura dovunque ti porti, ma continua ad ascoltarmi, non lasciare la mia mano.”
L'ispirazione non aveva il compito né il potere di
salvarlo, ma Mario avvertì che era l'unica cosa capace di portare un po'
d'equilibrio nel suo stato mentale non proprio sotto controllo.
Per quello che poté si abbandonò a lei, riconoscente per
quell'incontro inatteso.
Nel caos che procedeva non mollò la presa, meravigliandosi di
quanto gli andava rivelando.
Come prima cosa gli fornì nuovi suggerimenti, per seconda gli mostrò tra i suoi ricordi quelli che avrebbero trovato un posto nel libro.
Cosa accade quando si rivive un ricordo?
Nello sconfinato tessuto della mente ogni ricordo – ogni
impressione da qualsiasi parte giunga – lascia un'impronta, come un
piede che calpesti la sabbia. Non c'è mare che possa cancellarla. Accade che
ritorniamo da quelle parti – a volte di continuo – dov'è rimasta l'impronta.
Una specie di risonanza fornisce l'energia che la farà parlare
nuovamente.
Il disco è sempre là, noi attacchiamo la corrente. Quel bacio
o una lacrima per quanto distanti, per quanto rivissuti innumerevoli volte vi
riportano al loro tempo.
Purtroppo quelli tristi e brutti sono capaci di intensità ben
maggiori.
Le cose stanno così, non ci si può far nulla.
E cosa succede quando si scrive un ricordo, o lo si
mette in una canzone, in un quadro, in una poesia, in un film o chissà dove?
Mario al termine della stesura vide i propri sotto forma di
parole e li trovò belli.
Non perché avessero qualcosa di speciale o gli pareva di
averli scritti bene.
Neppure perché in questa nuova forma forse altre persone li
avrebbero letti.
Era a causa dell'acqua con la quale li impastò, l'acqua dell'ispirazione.
E se un singolo ricordo – un appena più del nulla – poteva trasformarsi in un fiore aperto sul foglio, cosa si potrebbe ottenere applicando l'ispirazione alla vita in corso?
Fu la terza cosa che fece per lui.
Quand'erano assieme la sua presenza zittiva la scimmia
impazzita che gli saltava sulla testa, la mente, come in India usano
paragonarla.
E quel che videro i suoi occhi, quello che vedono gli occhi
di tutti, non fu come al solito.
Diventò uno spettacolo! Tutto quanto guardava era ugualmente
interessante, bello, degno d'attenzione. Qualcosa del genere in precedenza
l'aveva intravista solo fugacemente.
Ma ora era un continuo. E sentì quella voce dentro di sé che
lo incitava a volgersi di qua e di là, a non perdere questo e quello... descrivendolo
allo stesso tempo con le parole!
“Ma sì, giochiamo!” - si disse. Con sé o con la
fantasia, e anche fosse qualcos'altro che importa, quella voce
narrante descriveva la pienezza della vita, adeguandosi alle sue
possibilità di comprenderla.
Cercò febbrilmente di memorizzare prima e mettere per
iscritto poi quelle parole, pur sapendo di non poterne trasferire la luce che
portavano con sé.
Quello che cercano di fare pittori, musicisti e gli artisti
in genere.
Al di là del risultato tutti cerchiamo di fare la stessa
cosa: ringraziare l'ispirazione per la grazia concessa, nel modo che il
nostro talento ci permette, chi più chi meno.
La grazia di vedere, sentire, toccare, assaggiare,
annusare... pensare la vita.
Lo facciamo di continuo, ma solo lei ci può rivelare quale
tesoro abbiamo per le mani.
Spero che almeno una volta sia capitato a ognuno.
Se così non fosse ho fiducia che non permetterà che ve ne andiate senza toccarvi in qualche modo, magari all'ultimo istante. Un istante che illumina una vita.
Il primo suggerimento dell'ispirazione divenne un racconto e
via via gli altri.
All'inizio abbozzati e scritti velocemente, allagati di
parole, in seguito asciugati e ordinati con la necessaria disciplina che
chiunque scriva conosce.
Ritorniamo a Mario, che qualche giorno dopo sedeva in un bar
pasticceria di Nerezine – una cittadina tra le più grandi nell'isola – in
compagnia della sua invisibile amica già all'opera...
Il locale, con una ventina di tavoli all'aperto riparati da
bianchi ombrelloni e un bell'albero è rivolto verso la grande piazza. Essendo
uno dei più vecchi ha un'ottima posizione.
Come gli antichi castelli, monasteri e paesi in alto sulle
colline, edificati dove né acqua, né frane li hanno mai raggiunti. Posti scelti
non a caso, e orientati con cura.
Giusto di fronte vi è un altro bar ristorante, da poco
rinnovato all'esterno e di dimensioni ragguardevoli, frequentatissimo. Due
recenti enormi tendoni regolabili elettricamente permettono di non avere pali e
basamenti a intralciare le gambe, usufruendo di spazio aggiuntivo.
Purtroppo il grande albero al confine con la piazza dovette
essere potato drasticamente, mi auguro per motivi di sicurezza.
Dal bar pasticceria si vede in ogni dettaglio il grande bar
ristorante, ma dopo un po' si sposta lo sguardo a sinistra sulla salita verso
la chiesa o in altre zone della piazza, zone più tranquille.
Qualche volta Mario, trovando occupati i tavolini della pasticceria, sedette nel bar rinnovato e senza farlo apposta si ritrovava a guardare senza stancarsi l'altro, dispiacendosi di non aver atteso. Ma bisognava pur provare, no?
Da un paio d'anni hanno aperto un altro grande bar –
confortevole, con le pedane di legno e fresche sedie e tavoli, ben ombreggiato –
desolatamente vuoto o quasi nell'ora più bella, prima del pranzo.
Non gli manca nulla, ma non ha radici. La piazza, pur
accettando la nuova splendida pavimentazione di cui aveva disperato bisogno non
l'ha ancora fatto proprio.
Passerà del tempo e come l'altro con i grandi tendoni avrà il
suo pubblico e l'approvazione della piazza.
Al pari degli altri pianeti l'orbita sarà divenuta stabile e girerà attorno al sole, forse desiderandone lo scettro. C'è sempre un centro, un sole, un fuoco. Per Mario quel bar pasticceria lo sarà sempre.
Sulla bassa ringhiera che delimita lo scoperto del bar di fronte
c'è uno striscione colorato.
Con l'immagine di un uomo che risale dagli abissi marini.
Vestito da subacqueo e armato di fucile.
"Campionato mondiale di pesca in apnea. Malj Losinj 9
settembre 2010".
Una sensazione costringe Mario a guardarlo a lungo.
Non perché gli interessi la pesca subacquea, pur ritenendo
quella in apnea meno micidiale dell'altra dove l'uomo diventa un insaziabile
pesce armato, potendo respirare dal suo serbatoio.
La sua amica invisibile gli dice che da lì, ci creda o
meno, ne ricaverà un bel racconto.
Non solo, a breve le associazioni di pensieri lo condurranno presso l'orma di un ricordo in attesa di aprirsi nuovamente, per diventare parte di questo capitolo. Basta attendere, bevendo intanto il discreto cappuccino e ascoltando l'anziana coppia di americani del tavolino vicino, recenti scopritori dell'isola e pare ormai clienti abituali della pasticceria, dove hanno appuntamento con altre persone che arrivano di lì a poco. Gli verrebbe da chieder loro come sia avvenuto, di venire in quest'isola e di scegliere questo bar e non un altro.
Il subacqueo dello striscione risale gli abissi, ma non si
trova in pieno mare, dove non sarebbe facile individuare le sue prede, ammesso
siano della taglia adeguata e non siano loro a considerarlo tale. Il luogo
della competizione è vicino alla costa, già profondo dopo pochi metri.
Roccioso, ricco di nascondigli per i pesci. L'isola è molto frastagliata, con
profonde insenature che ricordano i fiordi della penisola scandinava...
Una delle attività preferite di Mario e della moglie è
ispezionare l'isola. Ogni anno, inseriti tra i ritorni nei luoghi chiave,
mettono un itinerario nuovo. In quest'isola e a volte in quelle vicine.
Raggiungibili con la nave di linea o con i battelli delle gite organizzate.
Queste sono una gran cosa per chi voglia passare una giornata
in mare, meno per coloro che non riescono a conciliare la loro routine con le
modalità di tali escursioni. Soprattutto il tempo richiesto, in media dalle 9
alle 18.
Scegliendo la nave di linea occorre adeguarsi all'orario di
ritorno, troppo presto o troppo tardi, ma ancor più a quello di partenza. Che
costringe a levatacce prima dell'alba. Ma perlomeno si può scegliere come e
dove riposarsi tra i due.
Ilovik è un'isoletta che dista un miglio dal punto più a sud
di quella di Lussino che è il prolungamento di Cres, attraversato il ponte di
Osor.
Nel 2005 salirono sulla nave per andarla a visitare, partendo
da Malj Losinj – Lussinpiccolo.
Molto più grande e importante dell'altra, Velj Losinj –
Lussingrande – che lo fu in passato.
I nomi non si cambiano, le fortune sì.
Ora Mario parla in prima persona.
Finalmente si andava nell'isola dei fiori. Così dicono,
assieme ad altre cose gradevoli da verificare.
Eravamo passati agli Euro in Europa, mentre la Croazia da
dopo la separazione usa quale moneta la Kuna. All'inizio riusciva più facile
convertire prima nella vecchia valuta e poi in quella nuova.
Anche questo stato ambisce a far parte della Comunità
Europea, ma per i redditi medio-bassi quando accadrà sarà una mazzata. Come è
accaduto a noi in Italia, dove dicevano che l'alternativa era la bancarotta.
Ogni anno le manovre economiche si mangiano potere d'acquisto dei salari,
aumentano i lavori precari e la disoccupazione.
L'alternativa è sempre quella, la bancarotta. Per la fantasia
c'è già stata.
Il caffè a Cres costava sei kune nel 2005 e costa sei kune
oggi nel 2010 (meno di un euro).
Per il biglietto, un'ora di confortevole traversata sul
ponte, si spendono ventidue Kune per due persone, tre euro. Lo ricordo perché
girai dei piccoli videoclip, per fortuna non l'ho fatto con le tariffe in
Italia prima e dopo l'euro, meglio dimenticare.
Dall'altra parte dell'Adriatico, a Venezia, una corsa singola in vaporetto costa il doppio, ma è un'altra storia, siete turisti, il danaro non basta mai e le finanze comunali poggiano per buona parte sul casinò, che Dio protegga i giocatori! Ricordo la banconota da dieci Kune, circa un euro e trenta centesimi. La adoro e quando me ne separo ad esempio per pagare il caffè al tavolo, è ancora sufficiente per lasciare il resto di mancia. È sempre un'altra storia, ovviamente.
Sbarcati a Ilovik decidemmo per il giro dell'isola, circa
quattro chilometri, incontrando dapprima l'unica spiaggia sabbiosa. Grande e
meravigliosa anche se ricoperta di poseidonia, una pianta marina, seccata dal
sole.
Una vera attrazione. Anche per chi vi arriva soprattutto in
gommone, motore acceso sino a venti centimetri d'acqua, e colà ormeggia. Il
bagno lo abbiamo fatto subito, neanche il tempo di tornare a riva che già
gommoni e barche si erano impadroniti di quasi tutto lo specchio d'acqua.
Ai loro occupanti andava bene, questione di gusti. Ma dalla
mia piccola esperienza marinara non finirò di sorprendermi.
Con un piccolo gommone sono andato in posti che a piedi me li
sognavo, o dovevo camminare ore per arrivarci. E ormeggiavo, se c'era qualcuno
o un'altra barca, il più distante possibile.
Per me il senso era quello, anche se rispetto coloro che
hanno quello del branco, come l'ho anch'io per altre cose. Ma per favore, voi
rispettate almeno una regola, spegnete il motore e usate il remo per giungere a
riva.
C'era un manifesto a Lussinpiccolo che invitava a una
conferenza internazionale quell'anno, il cinque settembre a Trieste e dal sei
al dieci settembre proprio nella cittadina marinara croata.
Un bel salto, probabilmente voluto, infatti il tema era: “Esistono
i salti quantici?”
Argomento per fisici e scienziati, pare con implicazioni
notevoli.
Da un luogo si arriva in un altro impossibile da raggiungere
direttamente. Paradossalmente sembra si possa ottenere tale risultato facendo
il giro dell'universo o qualcosa di simile, anche se nessuno ha idea veramente
di come funzioni. Da allora non si dubita che esistano tali salti, sfruttati in
alcune recenti tecnologie. In futuro li si padroneggerà meglio, così sperano
gli addetti.
Mi permetto di suggerirne un uso sociale, profondamente
educativo. Fatto il dispositivo lo si applichi ai divieti di sosta. L'auto non
autorizzata rispedita al domicilio in un solo salto.
Con quelle dei recidivi, dopo più sanzioni, si spenga il
congegno dopo averla lasciata parcheggiata nei pressi di qualche buco nero, che
provveda a riscuotere l'ammenda. Si tutelino in codesto modo anche i posti più
belli, le spiagge ad esempio. Sì, ho in mente quei gommoni...
La seconda spiaggia, sassosa, era decisamente tranquilla e
l'acqua più fredda. Riposammo sotto dei grandi pini marini che avevano più
cicale che aghi. Nella spiaggia a meno di cinque metri dall'acqua c'era un
albero di fichi, self service. Non erano al massimo della maturazione, ma la
persona che mi vide soddisfatto venne a sua volta e li colse ancor più acerbi.
Al ritorno ci fermammo per riposare e bere alla cappella che incontrammo
l'andata, dove si diparte il sentiero che gira attorno all'isola.
Il caldo e la lunga giornata non si presero tutte le energie; quella che segue è la trascrizione del dialogo, registrato in un videoclip.
Stiamo bevendo da un thermos il resto di una bevanda
ancora fresca.
«Rinfrescante?» - chiede mia moglie - «Sì» - rispondo, e guardando il posto le dico: «Ad esempio, tu sei in questo luogo e forse...» - «Non ci tornerai» – interviene, leggendomi nella mente – «Forse non ci tornerai mai più» - «E cosa cambia?» - «... pare strano vi siano luoghi che non rivedrai più e miliardi di altri che non potrai mai vedere» - «Perché ti pare strano? A me non viene neanche in mente» - «... evidentemente qualcosa viene in mente a me e qualcos'altro a te» – «Mhm...» - «Non ti colpisce il fatto che potresti non tornare in un posto?» - «Penso a questa cosa solo perché l'hai detta, altrimenti il pensiero non mi sarebbe mai venuto» – «Non credo di essere stato il primo a dirlo» - «Non ha importanza, in questo o qualsiasi altro momento non mi verrebbe un tale pensiero» – «Per esempio, in Finlandia...» -«Va beh...» - «... ho capito, proseguivo nel concetto» - «Tu vuoi spesso proseguire con i tuoi concetti...» – replica sorridendo, gettandogli alcune gocce della bevanda col dito. - «In Finlandia o giù di lì ci sono più di 10.000 laghi, neanche a vederne uno al giorno riusciresti a vederli tutti» - «E allora?» - «Allora uno potrebbe dire, se vai in alto su una montagna e guardi giù...» – «Ma perché dovrei vedere 10.000 o un milione di laghi, che senso ha?» - «È quello di cui parlo, cercando di dire come funziona» - «Qual è lo scopo?» -«Dipende dalla visuale, se vai sufficientemente in alto con un unico sguardo puoi coglierli tutti» - «Non hai capito, cosa cambia se dall'alto guardi 10.000 laghi oppure non ne guardi nessuno, o uno solo?» - «Che con un unico sguardo li cogli tutti » - «E che differenza c'è tra uno e il tutto e nessuno, spiegami?» - «Ecco, questo è un concetto profondo, anche come l'hai espresso, che differenza c'è tra l'uno, il tutto e nessuno!» - «Per me non ce n'è proprio alcuna, almeno in testa non mi viene nessuna differenza» - «Allora, se tu hai un euro o centomila euro...» - «Questo fa differenza, ma dieci laghi, nessuno o diecimila, proprio... fossero di mia proprietà sarebbe un altro discorso, ma vedere diecimila laghi...» - «Quindi di quello che non hai, uno o tutto non fa differenza, di quello che hai si nota la differenza» - «No, stai giocando con le parole, mi sembra chiaro» – risponde ridendo. - «Invece tu stai esprimendo dei concetti?» - a sua volta ridendo, come in seguito entrambi - «Passi dai laghi, ai soldi... cosa c'entrano i laghi con i soldi? Se possiedi i laghi, diecimila o uno... puoi venderli, ma vederli...» - «Stai riportando tutto ai soldi? » - «No, tu hai cominciato a dire che c'è una differenza tra vedere un lago, non vederlo più, vederne diecimila, andare sulla montagna...» - «È tutto documentato!» - «Basta, sono stanca...» conclude ridendo e terminando l'ultimo goccio d'acqua.
Un dialogo tra persone come tanti, se vi trovate un senso o
vi avrà fatto sorridere allora meritava averlo trascritto.
Dallo striscione alle insenature, da queste ai fiordi e
infine ai laghi Finlandesi.
Il ricordo di quel giorno sta svaporando quando la mia
amica mi mette in testa questo pensiero: tra tanti laghi, forse ne puoi
trovare uno che li rappresenti tutti. E tra tanti bar?
Credevo d'essere quasi in procinto d'alzarmi, ma la strana
domanda mi inchioda alla comoda sedia. Evidentemente c'è ancora del lavoro da
fare.
Non ho per nulla esperienza di laghi, eccetto l'unica
approssimata indicazione sul numero di quelli Finlandesi. Che scoprirò in
seguito essere di gran lunga in difetto visto che sono ben 187.888! Ho anche
scovato un detto di Eraclito: “Uno è per me diecimila, se è il migliore.”
Forse mi sarà più facile trovare la risposta per i bar e
all'inizio procedo nel modo più semplice, figurandomi di avere una sola
possibilità e di dover decidere. Se procedete in questo modo arriverete a una
risposta, ma non sarà quella giusta, perché siete andati per esclusione,
mentre la questione era quale possa rappresentarli tutti, il vincitore
deve avere qualcosa di tutti gli altri, una ricerca inclusiva.
Beh, basta trovare questo denominatore in comune e poi vedere
chi l'abbia migliore.
Facile dire il caffè... ma toglierei dalla competizione
quelli dove servono altre bevande.
Forse non è quello che servono ma come lo
servono?
O qualche altra qualità a cui non ho finora pensato?
Quasi non mi accorgo del tempo trascorso, il sole è al
massimo dell'elevazione e per quanto l'aria sia diventata via via più calda il
rimuginare sulla questione mi ha assorbito, anche un po' eccitato;
l'ispirazione vi trasporta in una dimensione di possibilità inesplorate... ecco
qual è il bar che rappresenterà tutti i suoi simili!
Quello che vi avrà ospitato e permesso tale condizione, nella quale le persone che passano, i suoni e i rumori della vita in atto e tutto l'infinito insieme di particolari a cui avete di volta in volta prestato attenzione, non vi hanno distolto da quel movimento creativo in voi, anzi l'hanno accompagnato come l'orchestra il violino solista.
Può dunque essere questo il bar?
L'altro ieri ero seduto in un altro, onestamente direi
che non era da meno, e procedendo di certo ne troverei ancora. Messa così la
questione torna al punto di partenza, se non fosse che questo girovagare mi
riporta alla mente qualcosa che non ho mai dimenticato, dandomi la sensazione
che vi sia un luogo per ognuno di noi dove la sottile grazia creativa ci
raggiunge, anche solo per progettare un viaggio o cercare un mobile
appropriato.
Non necessariamente un bar, un lago o una camera.
Come sovente accade, dalla domanda iniziale si diramano
molteplici sentieri e seguendo quelli che più ci risuonano, non potendo tutti,
al termine del percorso la domanda stessa si è trasformata e vi si rivela
quello che in realtà andavate cercando.
All'inizio non ne avevo idea, ma poi di botto ho sentito che
quello cui anelavo era la collocazione appropriata per qualcosa che nella vita
ho portato sempre con me, il posto giusto dove richiamare le sue parole
immortali e rendere onore al poeta che quel bar l'ha trovato davvero:
Sempre caro mi fu quest'ermo colle, e questa siepe,
che da tanta parte de l'ultimo orizzonte il guardo esclude...
........................
4° capitolo: Incontri
Pur con tutte le precauzioni non si può rischiare
un'escursione in kayak distante dalla costa, era arrivata la bora, il
caratteristico vento dell'alto adriatico. Si potrebbe scrivere più di un libro
sull'argomento, sulla sua personalità. Tra essa e il maestrale è una bella gara
quanto a forza. Quanto ad astuzia invece, intesa come capacità di farsi
rispettare dall'uomo, la bora non ha rivali. Qualcuno afferma che in nessuna
parte del mondo esiste un vento del genere. Risale i modesti rilievi del golfo
del Quarnaro senza farsi notare, per gettarsi in un istante come una cascata
sul mare. Un vento dall'alto, in verticale! Capace di spiaccicare
sull'acqua un veliero in ritardo nel ridurre le vele. Poi prosegue la sua corsa
tra le isole frastagliate e ci attenderemmo di averlo sempre da nord, da dove
arriva. È la regola, ma ama le eccezioni e sovente gira da tutte le parti senza
lasciarvi uno specchio d'acqua cheta, giusto per un bagno. Ammesso che lo
troviate conoscerete un'altra sua prerogativa. Anche in piena estate può
bastare qualche ora per ritrovarsi nell'acqua gelata. Non esagero, in certe
spiagge – la mia – è tanto se resistete qualche minuto. Insistendo non basterà
una doccia calda a togliervi quella sensazione di freddo arrivata sin nelle
ossa. Immaginatevi d'inverno.
Da queste parti nessuno che la conosca scherza con la bora.
Sempre meglio rivedere i piani se un venticello fresco da
nord inizia a increspare il mare.
Si dice che monta e ci mette assai poco, anche meno di
un'ora, come imparai a mie spese.
Vero che fu decenni addietro e non avevo esperienza, ma più
di quella mi mancava il senso di rispetto che chiunque vada per mare, con
qualunque mezzo o solo per nuotare, dovrebbe avere quando si trova in questo
ambiente. Comunque col tempo li acquisii entrambi.
A quel tempo mi cimentavo col windsurf, uno dei primi,
talmente grande che ci si poteva prendere il sole in due. Con una vela che
pareva un lenzuolo matrimoniale, di quelli che ci fate mezzo giro sotto al
letto, e un palo – albero – per spiegarla che pesava come una lancia
medievale pur essendo d'alluminio. Poco manovrabile e tremendamente pesante,
piombo puro con un vento appena forte.
Ci misi un'oretta bordeggiando per raggiungere una bella e
ampia insenatura.
Ma non mi bastò il resto del giorno e la notte per ritornare.
Montò che quasi non feci a tempo a risalire, dopo un breve bagno. Tuttavia
insistetti, cercando di uscire dall'insenatura, controvento.
Il vento aumentava e le onde crescevano, con le creste che
già spumavano.
Dopo non ricordo quante cadute in acqua e devastanti fatiche
ed equilibrismi per issare nuovamente la vela mi fu chiaro che non ce la potevo
fare.
Mi lasciai sospingere a riva. Non avevo se non il costume –
previdenza zero – e mi tornò utile la grande vela, usata a mo' di lenzuolo, per
riparami dal freddo della notte. In quel modo funzionò benissimo. Un giorno
senza bere e mangiare non mi impedirono di ammirare le stelle.
Con la bora il cielo si pulisce che è una meraviglia.
Ero in vacanza con degli amici che si allertarono e la
mattina dopo mandarono un gommone a cercarmi. Non direi un vero salvataggio – piuttosto
un recupero – ma il sollievo fu lo stesso. Ero provato, e non ringraziai come
si conviene e me ne scuso.
Da quella volta ho imparato ad aspettare, cambiando di
conseguenza programmi.
Oggi ho un kayak gonfiabile, buon compromesso tra sicurezza,
comodità e prezzo.
Con la bora, per non rinunciare al gusto e alla fatica di
remare decido di farlo a una decina di metri dalla riva, risalendo la spiaggia
via mare. Ma anche così – tenere la posizione aspettando che passi la raffica –
lo sforzo di procedere controvento costa troppa fatica e produce scarso
risultato.
In questa condizione si deve attendere il momento giusto, in dialetto
veneziano: “Ti speti e dopo ti remi, spetar e remar...”
Dopo una mezz'oretta di quell'allenamento ritorno deponendo i
sedici chili del kayak sullo spiazzo davanti casa per risciacquarlo con un po'
d'acqua dolce. Compiuta l'opera guardo il mare. La bora si è placata! E con lei
i meravigliosi disegni delle raffiche sull'acqua, che sotto riva non alzano
onda. Bastava aspettare, non ho avuto la pazienza necessaria, l'esperienza non
è mai abbastanza.
È ancora presto, tanto vale farsi una bella nuotata con la
maschera.
A tre-quattro metri di profondità, davanti a me, osservo un
branco di centinaia di pesciolini argentati, lunghi sui dieci centimetri.
Improvvisamente scartano sulla mia sinistra alla massima velocità, stringendo i
ranghi. Faccio appena a tempo a meravigliarmi della precipitosa fuga – non
avevo mai visto dei pesci sopravvalutarmi a tal modo – ma ecco arrivare il
siluro che del tutto indifferente alla mia presenza ha sospinto il branco
verso riva, senza però inseguirlo. Con una curva più ampia li raggiunge quando
cercano di riguadagnare il largo e la profondità, ora a gruppi.
Se volasse come nuota! Una saetta, capace di virate subacque
strettissime al pari delle sue prede. Non ho visto se avesse ingoiato qualcosa,
è riemerso distante da me placido come quelle paperotte in plastica per le
vasche da bagno. In tutta la mia vita acquatica è la prima volta che un
cormorano mi permette di vederlo all'opera, rivelando di cosa sia capace. Che
spettacolo! Tutti gli splendidi documentari su ogni sorta di pesci, delfini,
balene, e gli altri animali che vivono nell'acqua, uccelli marini compresi, non
possono darvi un istante dell'emozione di trovarsi nel luogo giusto al
momento giusto.
Anch'io come tanti ho coltivato il desiderio di avvicinarmi
ai luoghi frequentati dai delfini, dopo questo incontro penso che se anche mi
capitasse non sarebbe garantito il momento giusto, quando l'animale si
comporta e agisce indipendentemente dalla vostra presenza.
Durante le nuotate una delle attività cui mi dedico è la raccolta
di orecchie di mare, molluschi che una volta morti lasciano il gioiello
iridescente del loro guscio a luccicare sul fondo del mare. Se ne trovano a
tutte le profondità. È come un gioco per bambini, non credo che mi stancherò
mai di rispondere a quel riflesso argenteo. A volte ne trovo solo una e mi
soddisfa al pari di molte.
Le usano per farne composizioni o pendagli; a casa ne ho
dappertutto, in attesa dell'idea giusta per metterle assieme, ma sono
trent'anni che non mi viene.
Continuando a nuotare, dopo l'incontro col cormorano, arrivo
sopra un banco di poseidonia, l'unica pianta erbacea adattata a vivere nei
fondali marini e provvista di radici, al contrario delle alghe.
Assorbe talmente la luce che il mare diventa scuro e solo
l'interesse a osservare le numerose specie viventi che ospita allontana il
leggero senso di disagio, che fa preferire un fondo più chiaro. Così decido di
seguirne il perimetro, una via di mezzo. Quando ritorno al punto di partenza mi
rendo conto di aver compiuto un cerchio, quasi perfetto, di una quindicina di
metri di diametro.
Non solo, all'interno di questo, un metro dal bordo, corre un
anello largo mezzo metro dove l'alga non ha attecchito se non in piccole
chiazze di ridotte dimensioni. La profondità sui tre-quattro metri, il mio
ideale. Ho seriamente considerato che non ci fosse la mano dell'uomo tanto era
regolare.
Forse sotto quel cerchio c'è qualcosa? Colonizzato in seguito
dall'alga seguendone i contorni o altro? Per verificare se vi fosse qualcosa di
vero nella balzana idea iniziai molto lentamente a percorrere un giro del
cerchio interno, riportandone una bella sensazione.
Così decisi di farne tre di giri, numero perfetto. Ma
ritornato al punto d'inizio persi il conto.
Erano due o tre? Ne faccio un altro paio per sicurezza, ma
anche stavolta non sono sicuro di averne fatti davvero due, che strano! Nuotare
sopra l'anello, non facendo null'altro che osservare senza focalizzare qualcosa
in particolare aveva un che di ipnotico...
mi sono venuti a mente i labirinti circolari, come quello di Chartres in
Francia. Girare in tondo sino al momento giusto per entrare... come ho fatto
anch'io al termine dei miei giri, portandomi al centro e individuando quella che
mi sembrava la via d'uscita. Contento dell'esperienza che non cercherò di
ripetere, almeno quest'anno.
Al ritorno dal lungo bagno vedo una coppia darsi da fare sul
moletto dove ho lasciato le mie cose. Hanno messo delle pietre per impedire
alla mia stuoia e alle altre cose di volarsene con il vento che ha ripreso vigore.
Sono venuti dalla spiaggetta sassosa vicina. Una vera gentilezza, l'avrei fatto
anch'io.
Avevo quattro grossi fichi rossi e subito ne ho dati due a
loro – take for the job, prendete per l'aiuto – hanno ringraziato (erano
tedeschi) sorridendo per la sorpresa. Vi garantisco che quei fichi erano
squisiti. I due rimasti mi hanno soddisfatto molto più che se li avessi
mangiati tutti.
Il ricordo va a quando andammo a Corfù
portandoci appresso in carrello una pilotina, una barca molto diffusa e a buon
prezzo (presa molto usata) di cinque metri parzialmente coperta. La
storia è lunga e non ci starebbe per intero.
Il collegamento con i fichi riguarda un ancoraggio per la
notte in una baia deserta nell'isoletta di Andipaxi, a sud di quella più grande
di Paxi, a sua volta a sud di Corfù.
Due pescatori del luogo arrivarono la mattina dopo con una
barca.
Uno era parecchio anziano e l'onda gli rendeva difficoltoso
legare a riva la corda, troppo corta, mentre l'altro più giovane con i remi
manteneva la barca nell'acqua fonda. Dopo qualche tentativo andai ad aiutarlo.
Terminato il loro lavoro accostarono alla nostra barca per offrirci una
manciata dei loro peri, buoni come quei fichi. Lo fecero con tale semplicità
che detti fondo alla riserva offrendo un paio di birre. Erano accaldati e
apprezzarono molto. Ci invitarono nella loro casa, sulla cima della collinetta
alle spalle della baia, mostrandoci il sentiero. Ci andammo il giorno seguente
e dall'alto godemmo della vista dell'isola, con la nostra barchetta ad
attenderci.
Erano poveri ma dignitosi e ci offrirono quel che avevano.
Accettai anche una sigaretta, avevo già smesso ma la
considerai l'ultima.
Torniamo a Mario, che il giorno seguente ritorna nello stesso
bar di Nerezine dove prova una sensazione di cui non viene a capo. Finché non
posa lo sguardo sull'uomo, seduto nell'ultimo tavolino a due di distanza dal
suo che pare osservarlo a sua volta. Avverte l'intenzionalità del gesto;
rimangono qualche istante sospesi, poi affiora un'immagine sfocata. Era là
anche il giorno prima.
In quell'istante senza tempo in cui avvertite il contatto con
un'altra persona opera un sesto senso che vi rimanderà un'attrazione o una
repulsione, non una neutralità, altrimenti non sarebbe iniziato. Raramente la
porta si apre. Ovviamente bisogna essere cauti, non sapendo dove ci porterà. Ma
se non fosse stata una folata di vento a disperdere i suoi appunti proprio
nella direzione dello sconosciuto sarebbe finita lì. L'uomo, non troppo
anziano, li raccatta ed è già arrivato al tavolino di Mario, ancora indaffarato
nel raccogliere i rimanenti. Evidentemente era destino.
«La ringrazio» - «Di
nulla, si figuri. Vedo che sono appunti, forse scrive, signor..?» - ormai la conversazione era partita e Mario
dopo essersi presentati invita Luigi a sedersi al suo tavolo - «Beh, dire che
ci provo è più corretto. Lei s'intende di scrittura?» - «Sì, tempo addietro lavoravo per dei
giornali, in Germania. La lingua la conosco da parte di madre. Interviste
principalmente, ma anche articoli a carattere finanziario. L'ho vista ieri, è
rimasto a lungo assorto e so riconoscere chi segue un filo in sé da chi
semplicemente ozia, altra piacevole attività. Le dispiace se ci diamo del tu?»
- «Affatto, Luigi. È
vero, seguivo ricordi lontani e nuove suggestioni. Sto raccogliendo materiale
per un altro libro, il secondo. Il primo è fermo da qualche parte» – «Capisco, so quanto sia difficile per un
esordiente... specie se non più giovane. Cosa scrivi?» - bastò poco a Luigi per
conquistarsi la simpatia di Mario e farsi raccontare quanto aveva in testa il
giorno prima (diecimila laghi).
Parve apprezzare gli argomenti e il modo di
presentarli. Mario non si meravigliò dell'atmosfera confidenziale che si era
venuta a creare, costui faceva interviste e sapeva come porsi, ascoltare
soprattutto. Venne poi il suo turno di chiedere.
«Complimenti Luigi, in poco tempo sei riuscito a farmi
parlare di così tanto.
Senza capire quanto sia interesse e quanto retaggio del tuo
passato lavoro. Spero almeno 50 e 50. Ma è indubbio che ci sai davvero fare, te
lo dice uno che a sua volta ascolta più che parlare.
Se sei riuscito con me sarai riuscito con chiunque» - «No, 80 d'interesse e 20 d'esperienza, lo
garantisco, e non sempre ci sono riuscito, pur attendendo a lungo. Ma una
volta, proprio l'ultima, pur portando a casa l'intervista non l'ho capita io
stesso. Se vuoi te la racconto, avrai dell'altro materiale!» - «Non speravo tanto!»
«In redazione avevamo un uomo che scherzosamente
chiamavamo “il minatore” per la capacità di trovare notizie sulle persone. Non
quelle solite a disposizione di tutti, bensì informazioni che chissà come
riusciva a scovare, riguardanti per lo più la vita di note persone: frequentazioni, dichiarazioni, attività
svolte, incarichi e altro. Materiale quasi sempre di scarsa rilevanza, neppure
degno di essere citato, anche se in qualche occasione tornò utile per chiudere
qualche pagina troppo vuota. Motivo per cui lo si lasciava fare, non si sa mai.
Trovò qualcosa che mostrò al capo redattore il quale mi
chiamò per sentire la mia opinione.
Mi disse che quanto scoprì il minatore consisteva in un
comun denominatore che legava diverse persone di una certa importanza.
Risultava che prima della notorietà avevano conosciuto e frequentato un uomo,
un tipo strano. Dissi che non ci vedevo granché, non erano più i tempi dei
Beatles, del loro santone e di molti casi simili. La gente adesso non si
interessava di tali argomenti, troppo abusati dalla stampa. Aggiunse che in
questo caso tali persone ottennero un certo successo dopo la frequentazione.
Della quale, ne era certo, non parlavano. Se si sapeva era perché altri ne
riferivano. Sì, un po' diverso ma ancora poco, forse si poteva collegare con
qualche specie di società segreta o cose del genere. Ma per interessare il
pubblico ci voleva un fatto eclatante, non dico il morto ma almeno uno
scandalo, una spia, un patrimonio conteso e cose del genere.»
“Ti sbagli, la gente si interessa se qualcosa o qualcuno
può cambiare in meglio le loro vite.
Ma ha imparato a diffidare di chi chiede prima di dare;
non sembra questo il caso. Ascolta, questa è una storia che abbiamo solo noi,
senza il minatore nessuno avrebbe mai trovato nulla. Non so dove può portare ma
devi seguirla, raccontandola come un romanzo, magari la dividiamo in più
uscite. Qualcosa di diverso dal solito ci distinguerà. Devi andare da
quest'uomo e capire cosa ha fatto per interessare quelle persone. Digli che
parleremo poco dei suoi amici e molto di lui, altrimenti dovremo fare il
contrario. Se ha a cuore la loro privacy si troverà un accordo, ma bada bene,
voglio una storia che stia in piedi.”
«Non gli interessava davvero la mia opinione, come al
solito aveva già deciso e come al solito avrei fatto quello che mi chiedeva,
era il mio mestiere. Ricevevo il titolo del tema e lo dovevo svolgere.
Per me la scuola non finiva mai.
Ma era comunque un bel lavoro, viaggiare, parlare,
scrivere... la mia vita. E poi se il capo aveva scelto me il motivo era perché
ci sapevo fare, riuscivo quasi sempre a far parlare le persone.
Se non avessi fatto questo mestiere penso che avrei
venduto aspirapolveri o qualunque altro articolo; tutto inizia dal sollecitare
la gente a parlare, stimolo a cui pochi resistono.
Poi bisogna saperla ascoltare, per capire cosa chieder
loro.
Facendolo bene non sarà facile per loro interrompere la
conversazione.
Ma quella volta fu tutto diverso, fin dall'inizio. Quella
persona, chiamiamola Ugo, rifiutò ogni mio tentativo di approccio con tale
determinazione che non rischiai la carta dei suoi amici, paventando di
pubblicizzare la strana associazione. Avevo troppo poco in mano per potermelo
permettere. Per un mese le provai tutte. L'appuntamento telefonico col mio capo
mi causava una tale angoscia che cominciai a star male davvero. Non sapevo più
cosa inventare per giustificarmi, ero ormai sul punto di lasciar perdere. Certo
che un fallimento totale come quello non mi era mai capitato, qualcosa riuscivo
sempre a portare a casa, almeno per salvare la faccia.
Me ne stavo al bar dell'albergo rimuginando su dove avessi
sbagliato, possibile che quell'uomo non avesse un punto debole, un punto di
accesso? Tutti ne sapevano poco, era arrivato in quella città che aveva
cinquant'anni e non ebbe bisogno di lavorare per vivere. Risiedeva in una casa
modesta e non spendeva quasi nulla per il cibo, consumando quello portato da
chi lo andava a trovare.
Non era sicura neppure la nazionalità, ma non c'era verso
di violare la sua privacy. Pagava le tasse e aveva per amico un ottimo
avvocato, che non poteva da solo tener su quel muro di gomma intorno a lui.
Quando cercai di conoscere qualcosa sul suo patrimonio, frequentando le banche
e gli uffici pubblici, mi arrivò una telefonata da un funzionario delle imposte
annunciandomi che era in corso una verifica delle mie dichiarazioni dei redditi
e che sarebbe stato bene preparare fatture, scontrini e moduli. Rabbrividii,
anche loro trovano sempre qualcosa, e nel mio caso non sarebbe stato troppo
difficile. Mi astenni dal continuare a fare domande... e guarda caso dopo
alcuni giorni lo stesso funzionario mi chiama per annunciarmi che dall'esame di
una dichiarazione a campione tutto risultava a posto. Era di prima che
cominciassi a operare finanziariamente per conto d'altri, quelle seguenti non
erano proprio immacolate. Lo interpretai come un avvertimento. L'episodio mi
turbò ed ebbi la sensazione che mi tenessero d'occhio. Forse stavo ficcando il
naso dove non dovevo? Beh, ne avevo abbastanza, ancora un paio di giorni e
avrei cambiato aria.
Che te ne pare Mario, interessante?»
«Decisamente, dunque lasciasti perdere?»
«Fosse dipeso da me sì, ma proprio in quel bar incontrai
una signora che conosceva Ugo e mi assicurò che assieme a lei potevo andare a
trovarlo, se volevo. Era quello che avevo sperato per tutto il tempo ma ora che
si stava realizzando le motivazioni iniziali erano meno incalzanti. La
curiosità però c'era sempre. Non la voglio tirar lunga, ci andai e lo incontrai
seduto in salotto con alcuni suoi amici. Neanche il tempo di accomodarmi che mi
presenta a loro, dicendo che da ben un mese gli giravo attorno senza decidermi
a entrare. D'impulso mi venne da replicare che l'avrei fatto subito, se me
l'avesse permesso, ma quello che aggiunse mi colpì: “Il problema era che volevi
entrare – passò subito al tu – senza togliere il soprabito, e magari portandoti
poi via anche qualcosa di mio, chiedendolo o meno.” - Si riferiva alla mia
professione e in questo aveva ragione da vendere. Ma era il mio mestiere, di
cui non mi vergognavo. Oggi ne vedo meglio i limiti, che sono quelli fisici delle
colonne dell'articolo, anzitutto, dove lo scarno riassunto di una vita deve
dare l'impressione a chi lo legge di conoscere e classificare il personaggio.
Vedi, i giornalisti come me hanno nella testa un gran numero di caselline dove
cercano di collocare le persone e le storie. È il primo passo, senza il quale
non si può procedere. Come dicevo il nostro compito è di fare il tema, se
qualcosa non vi rientra dobbiamo toglierlo. Se è troppo dobbiamo limare.
Aggiungere in caso contrario. Una manipolazione continua e profonda.
In buona fede il più delle volte, delle altre meglio non
dire.
Per come la vedeva Ugo questo era l'aspetto meno
importante. La manipolazione è ovunque, perché preoccuparsi solo dei giornali?
Disse che era un'arma a doppio taglio, che agiva come uno specchio su chi la
praticava, con poche possibilità di rendersene conto. Anche questo – continuò –
non era poi tanto importante, un modo come un altro per guadagnarsi da vivere.
Mi accorsi che stava mettendomi in bocca l'inevitabile domanda: c'è qualcosa di
importante?»
«E rispose?»
«Eh sì, mi indicò quello che avevo solamente sfiorato.
Quello che ci distingue uno dall'altro. Individuato e seguito forse non ci
cambia la vita, ma si nota la differenza.
Secondo te cos'è, Mario?»
«Così, su due piedi... potrei darti dieci risposte
diverse...»
«Fu quello che dissi anch'io. Nel tuo caso io l'ho
individuato.
L'ho visto ieri in azione mentre ti teneva ore inchiodato
alla sedia del bar, lo sguardo senza direzione, intento a seguire il tuo filo
interno.
Il talento, Mario. Ognuno ce l'ha per qualcosa. Tu per
scrivere e girare intorno alle storie.
Quanto hai atteso prima di rendertene conto?»
«Forse l'ho sempre saputo. Da bambino alcuni miei temi
vennero esposti a scuola. E quando avevo una quindicina d'anni ne feci uno
sull'Europa senza neanche conoscere il nome di qualche personalità, neppure gli
Stati fondatori.
Parlai dell'idea. E vinsi un premio in denaro che fu proprio
utile a casa. Nel tempo ho abbozzato e scribacchiato qualcosa. Indecoroso, da
smettere all'istante. Solo quando terminai il primo romanzo vi colsi la
necessaria maturità, importante per me prima di tutto. Fu come vestirsi per
uscire – l'abito poteva andare – se qualcuno mi noterà forse non sarò alla
moda, ma almeno conto di non fare una brutta figura.
Complimenti, Luigi, sei un notevole osservatore. Tocca a te
adesso, qual è il tuo talento?»
«Far domande. Non alle persone, quello era un lavoro e una
strada sbagliata. A me stesso.
E aspettare di trovarci la risposta, prima o poi. Come io
l'ho notato in te Ugo lo colse in me.
Accadde qualche giorno dopo la prima visita. Si parlava di
denaro e si accorse che me ne intendevo. Mi chiese quale fosse il modo meno
rischioso per procurarselo.
Ovvia risposta, tentare la fortuna.
Rispose che bisognava prima spenderne senza alcuna
certezza; ce n'era un altro ed era sicuro che lo conoscevo. Per quante risposte
detti non l'azzeccai, ma lui era certo che prima o poi l'avrei trovato. Fu poi
che prima.
Mi sono sempre piaciuti i numeri, tutti, non solo quelli
speciali, i primi o di Fibonacci.
Automaticamente se vedo una targa all'istante ne faccio la
somma per ottenerne uno solo, come la prova del nove. Se è dispari smetto,
altrimenti passo alla seguente; non so perché lo faccio e nemmeno quando ho
cominciato. Un giorno mi cimentai a elaborare una sorta di complesso quadrato
magico, ma non ne venivo a capo. Intestardendomi e ottenendo solo di
innervosirmi.
Mi venne in mente di matematici e fisici che nelle stesse
circostanze lasciano tutto là e fanno altro, magari vanno a dormire. Seguii
l'indicazione, lo facevo per diletto, non c'era fretta.
Una settimana dopo ero seduto a un tavolino di un bar
all'aperto, intento a fare colazione.
Un ragazzino con una bicicletta quasi rovinò sopra il mio
cappuccino. Fu abile a scartare all'ultimo istante, solo un tocco di striscio.
Con qualche battito in più lo guardai allontanarsi, accompagnandolo non proprio
con una benedizione. Tutti uguali i ragazzini, pantaloni sformati e magliette.
Da basket la sua, numero sette. Solo quando pagai il conto, giusti sette marchi
di allora, capii che anche i sette giorni passati c'entravano. Tre volte sette,
ventuno era il numero che cercavo! Da allora ho imparato a porre meglio le
domande. E azzecco qualche numero di giochi popolari. Non grosse vincite, non
le cerco. Tuttavia sufficienti a campare bene, aggiungendosi alla pensione. Ho
ben altre ambizioni con i numeri. Ad esempio possono indicare una data.
Trovata quella, un luogo... ci sei arrivato?»
«Arrivato dove?»
«Nell'unico giorno, oggi. Nell'unico luogo, qui.»
«Vuoi dire che sapevi di oggi, che avremmo parlato..?»
«No, sapevo solo che qui, oggi, avrei trovato... un amico.
A cui raccontare una storia, la mia, sicuro di essere ben
compreso.
Quello che hai fatto anche tu, così che la legge della
reciprocità ha illuminato questo momento.
All'inizio ti dissi che l'ultima volta, pur portando a
casa l'intervista non l'ho capita io stesso.
Non sono io che la dovevo capire e neppure scrivere.
Questo è compito tuo.»
........................
Mario e la moglie decisero per una pizza a pranzo. Il posto giusto è un locale aperto da pochi anni a Osor, quasi a ridosso del massiccio campanile, vicino a dov'era il bar pasticceria dei macedoni.
Una terrazza all'aperto tra muri di pietra e una vite che ombreggia quel che può, collaborando con i bianchi ombrelloni. Manca solo un po' di movimento d'aria, ma non si può aver tutto. La pizza è enorme e ben cotta. Col celebre formaggio dell'isola di Pag e l'insalata vi servono pure dei panini appena fatti con la stessa pasta della pizza. Da portarseli a casa, se non ce la fate.
Anche il caffè non è male, e il conto più che onesto.
Usciti di là, satolli, cercano un posto all'ombra e arieggiato.
La cittadina merita una visita. Nel tempo i restauri l'hanno ricomposta in un insieme armonico e resta poco da sistemare. Alcune strette viuzze sono accompagnate per tutta la loro lunghezza da piante fiorite di ogni sorta. La grande piazza, occupata per metà dall'imponente cisterna interrata usata in passato per raccogliere l'acqua piovana, ospita gli alberi più grandi e vecchi. Sono quattro tigli posti ai vertici della stessa. Un tempo le loro chiome si congiungevano a coprire per gran parte lo spazio. Poi sono stati potati a causa di malattie che li hanno colpiti.
Ma anche per loro la vera malattia è la vecchiaia; comunque tirano avanti, rispettati e amati.
Le costruzioni della cittadina risalgono le poche decine di metri del costone che la separa dal mare. Ci si arriva con un sentiero in pietra ben rifatto, ammirando al contempo la grande baia.
A due terzi della quale hanno posizionato di recente tre enormi recinti circolari, circa venti metri di diametro, ancorati al fondo del mare. Il pesce non è mai mancato nell'isola, ma allevarlo permette migliori margini di guadagno e minor fatica.
Mario e la compagna conoscono ogni vicolo della cittadina e si sarebbero avviati verso quel sentiero, per sedersi sulla panchina che guarda sul canale e il suo ponte girevole, un gran bel posto panoramico e fresco. Senonché fatti appena una decina di metri e imboccato il vialetto con la chiesa a sinistra e il campanile sulla destra, si accorgono di aver già trovato quanto cercavano.
Ombra e vento. E gli ampi gradoni alla base del campanile, dove sedersi.
La vista è alquanto sacrificata, avendo di fronte a due metri il muro della chiesa, anch'esso come il campanile e la maggior parte delle costruzioni edificato con materiali locali, la pietra d'Istria, l'umile e meravigliosa pietra bianca cui anche Venezia deve il suo splendore e luminosità.
Si può guardare in alto, stupendosi una volta di più della sensazione di solidità e leggerezza che quelle architetture essenziali sanno infondere. Oppure a sinistra verso la strada e l'ovest senza barriere, o a destra dove il piccolo vialetto dopo essersi allargato in una deliziosa piazzetta alberata termina bruscamente di fronte al muro dell'antico municipio.
Il vento che si incanala da sinistra non ci mette molto a rinfrescarli, favorendo la digestione.
Strano quel vento. Proseguendo la sua corsa fino al termine del vialetto, non sfoga né a sinistra, sulla piazza, né a destra sull'altro vialetto. Ci sono alberature e stendardi in entrambi i sensi le cui fronde e tessuti rimangono immobili. Pure il vento è ben teso, almeno di rimbalzo dovrebbe arrivarci. Possibile che tutta quell'aria pieghi completamente a 90 gradi per dirigersi verso l'alto, senza interessare, almeno producendo delle depressioni, quanto si trova ai lati?
Come abbiamo già detto sono decenni che Mario frequenta questi luoghi, ma questa è la prima volta che si accorge dello strano comportamento del vento, apparentemente insignificante.
I numerosi turisti che passano di là dedicano giusto un po' di tempo per una foto accanto alla bronzea statua della piazzetta, figurarsi fermarsi nell'angusto vialetto a guardare il muro di fronte.
Ma sedendosi su quei gradoni il muro assorbe la vista e la sua agitazione. Solo dopo vi accorgete del vento, prima non ci fate molto caso, al massimo lo considerate aria mossa che rinfresca.
Gli addetti ai lavori ritengono di conoscere molte cose sul vento. La sua genesi e le caratteristiche legate alla direzione di provenienza. Tuttavia i fattori in gioco sono così tanti da rendere impossibile una previsione. Per la pioggia o il sole ci riescono con discreta precisione, ma col vento non c'è nulla da fare. Chi può dire quando arriverà o quando smetterà? Al massimo viene indicato un quadrante di provenienza e una probabile intensità. Il vento a suo modo è vivo, e come tutte le cose vive ha i suoi segreti. Chi va per mare usando le vele sviluppa una sensibilità nei suoi riguardi, all'inizio osservando le increspature che produce sul mare, ma rimanendo a quelle non si spiegherebbe la differenza tra un velista che l'azzecca e i pochi che vanno dove non c'è nulla e poi arriva il vento, anche se non sempre.
Se pensate che il vento sia solo aria mossa potete usarlo per ricavare energia, per navigare e per molti altri scopi, come si usano quasi tutte le cose di questo mondo.
Ma è solo quando si smette di servirsene che si comincia a sentire.
Il vento soffia dove vuole e tu ne odi la voce, ma non sai donde venga né dove vada...
Quell'anno dovettero proprio rinunciarvi. Enzo non se lo poteva più permettere, anche se il denaro che serviva per la solita settimana di vacanza nell'isola non era molto.
Purtroppo la loro situazione economica era in caduta libera da un pezzo e non c'erano segni di miglioramento, piuttosto il contrario.
Enzo e Marta avevano una quarantina d'anni, da giovani si conobbero nel tranquillo campeggio di Osor, affacciato sul mare e ricoperto da una pineta. Avvertirono subito che non sarebbe stata solo una storia, bensì la loro storia. Formarono una famiglia e arrivò di una figlia ora tredicenne e un maschio di sette, che una diagnosi definì autistico. Fosse dipeso in parte dal difficile travaglio che potrebbe avergli procurato un deficit di ossigeno al cervello, una causa genetica o dal mercurio contenuto nei vaccini non cambia il risultato: forte diminuzione dell'integrazione sociale e della comunicazione, necessità di attenzione e cure continue. Se decenni addietro veniva interessato un bambino ogni quattromila oggi riguarda uno ogni cento, un tale spaventoso incremento viene considerato non da pochi un'epidemia, che come tale non può avere cause genetiche.
Purtroppo se ne parla poco, mentre è una vera emergenza che interessa un'intera generazione.
Con molti sacrifici mandarono avanti la piccola attività imprenditoriale del padre di lui, dopo la prematura scomparsa a cui seguì per il dispiacere quella della moglie. Lavorando senza guardare mai l'orologio né il calendario riuscirono ad ampliarla fino ad assumere una decina di dipendenti. Producevano serramenti in alluminio e nonostante la concorrenza crescesse costantemente, l'abilità di Marta nel procurarsi nuove commesse li manteneva a galla. Perché quello era lo stato delle cose, galleggiare. Pur possedendo una bella villetta, il capannone dell'azienda, alcune auto e un grande camper erano appesi a un filo. All'altro capo c'era la banca e la sua reticenza ad aumentare il fido per coprire pagamenti che tardavano ad arrivare, se mai sarebbero arrivati. È la storia degli ultimi anni, che ha falciato innumerevoli piccoli imprenditori messi in difficoltà dalla concorrenza al ribasso e dai ritardi crescenti nel saldare il loro lavoro. Prima era questione di un mese, due al massimo. Poi tre, sei... sino ad arrivare a un anno e più, sovente da parte di enti pubblici.
Alle banche non interessa, guardano al loro profitto, non contano più i rapporti, gli uomini e i progetti, le idee valide e una storia alle spalle.
Conta mettere del denaro e dare delle garanzie, chi non ce la fa non ha scampo.
Tutto ciò è terribilmente sbagliato e meriterebbe un deciso intervento dello Stato a salvaguardia di una delle categorie che tiene in piedi la baracca, dando da lavorare a tante persone... senza attendere che per disperazione ci scappi il morto, come la cronaca spesso riporta.
Solo perché aiutati dai genitori di lei, che davano una mano in azienda e nella cura dei nipoti, ancora tenevano duro, nonostante lavorassero sempre di più e ricavassero sempre meno.
Poi arrivò la crisi e cominciò a mancare il lavoro. Come altri nelle loro condizioni speravano che si allentasse, ma andava sempre peggio, dovettero ipotecare il capannone e licenziare metà del personale, facendo lavorare a turno il rimanente.
Sino all'anno prima avevano mantenuto la promessa che si erano fatti di passare almeno una settimana d'estate nel luogo del loro incontro. Divenne l'unica vacanza, il solo momento in cui tuffarsi in acqua sperando di riemergere in un mondo diverso.
Acquistarono il grande camper non per esibire alcunché, ma per dare la possibilità al figlio di stare di fronte al mare che adorava, in un mezzo con tutti i servizi di cui necessitava.
Col tempo i risparmi furono sostituiti dai debiti e ormai rimanevano loro poche cose; tra la casa dove vivevano 51 settimane l'anno e il camper dove ne passavano una scegliettero giocoforza quest'ultimo.
Il denaro ricavato permise di respirare ma si ritrovarono con una ferita in più: la figlia non attendeva che quella vacanza per sognare un po', ritrovando gli amici che si era fatta nel campeggio.
Elia, il figlio, rimase imperturbabile e se provò qualcosa lo trasformò in un sorriso verso la sua famiglia. Incredibilmente veniva da lui il conforto più grande.
Il colpo fu tremendo; il camper e la settimana di vacanza oltre al valore simbolico per loro due, allo svago per la figlia e l'aria buona per Elia era l'unica occasione per allontanarsi da dove vivevano.
I problemi se li portavano dietro ma almeno non avevano davanti agli occhi il capannone sempre più vuoto e lo sguardo sgomento e preoccupato dei loro dipendenti.
Uniti all'angoscia dei loro familiari che vedevano avvicinarsi inesorabilmente il baratro del fallimento definitivo.
Quando in passato ci furono delle difficoltà Enzo reagiva impegnandosi ancor più, lavorando sino a non reggersi più in piedi. Marta comprendeva come quello fosse l'unico modo che aveva per conservare l'equilibrio e badava ai figli e alla casa, dando una mano in ogni momento libero.
Adesso che il lavoro era poco non rimaneva che stare attaccati al telefono contattando vecchi clienti, accettando un esiguo margine di guadagno per una commessa anche di pochi pezzi.
Prima di produrre occorre regolare e calibrare le macchine, procurarsi e controllare il materiale, calcolare gli sprechi e i tempi. Attività e tempo che non viene messo in conto e che si ripaga con la quantità dei pezzi prodotti. Se sono pochi, proprio sul più bello quando le macchine finalmente girano con un ritmo costante, è già finito. Occorre rifare tutto daccapo per una nuova produzione.
È uno stress enorme, come se un ambulante dovesse aprire e chiudere bancarella e ombrellone non una ma cinque volte al giorno, esponendo e riponendo in continuazione la merce senza poter prendere fiato. Ma almeno si è attivi, l'impegno e la fatica sottraggono energie al cervello che le userebbe per disperarsi.
La situazione diventa insostenibile quando la commessa viene richiesta oggi per domani, già con il prezzo fatto e senza possibilità di trattativa, prendere o lasciare.
Non c'è più magazzino in tempo di crisi, si produce se c'è richiesta e la spunta chi lo fa prima.
Mario conosceva quella famiglia e quando l'anno prima non li rivide venne a sapere del fallimento della loro attività. Vendettero quel poco che possedevano e assieme ai suoceri se ne andarono da dove avevano sempre vissuto, senza dire a nessuno in quale luogo. Una telefonata dopo qualche mese rassicurò che non successe una disgrazia, ma non fornì alcun dettaglio, neppure un indirizzo o un numero di telefono. Avevano del tutto reciso i ponti sottraendo alla curiosità, morbosa o compassionevole, il loro destino. Tra le ipotesi per un tale comportamento prevalse quella che vedeva l'intera famiglia costretta a vivere delle pensioni dei genitori, procurando loro un senso di vergogna e inutilità che li spinse a cercare un posto dove non li conoscesse nessuno. Se ci fosse del vero non riusciva a spiegare il modo in cui si allontanarono: più che persone schiacciate dagli eventi e dalla cattiva sorte sembrava partissero per una vacanza, tanto che chi li vide si domandò se ci fossero ancora con la testa.
Il capannone fu mangiato dai debiti che finirono di pranzare anche con buona parte del ricavato della vendita della casa, seguita da tutto quel che avevano: le tre grosse auto, i mobili, dei quadri, la collezione di radio d'epoca del suocero e anche piccole cose, come il trattorino per tagliare l'erba. Girò la voce che dovevano saldare degli usurai prima di potersi trasferire; fosse o no la verità almeno spinse qualcuno a non tirare troppo sul prezzo, come un funzionario della banca che acquistò la più bella delle loro auto, sentendosi in pace con la coscienza.
Comperarono per poco due utilitarie usate e nessuno più vide e seppe qualcosa di quelle sei persone.
In quel campeggio anche Mario soggiornò per un paio d'anni, quand'era giovane e la schiena ancora sopportava la vita spartana in una tenda. Costretto ad abbandonare una tale sistemazione non rinunciò a passeggiare in quel posto cui rimase affezionato, dove un'estate incontrò e fece due chiacchiere con Enzo. Non una vera amicizia, piuttosto una simpatia che si esauriva con un saluto e qualche scambio di impressioni. Ci rimase davvero male per quello che successe. Tanto da non aver più voglia di fare la solita passeggiata, per non passare davanti alla piazzola giusto di fronte al mare dove erano soliti posteggiare. Ma non volendo rinunciare a un'abitudine decise per una via di mezzo: fermarsi prima di poter vedere la piazzola e dare solo un'occhiata agli scogli piatti dov'era incastonato il piccolo faro – meno di due metri di altezza – che segnalava la baia.
Quei comodi scogli erano il posto preferito di Elia, dove rimaneva a lungo a giocare – se giocava – col niente dell'acqua tra le dita, contemplando ogni tanto – se contemplava – alla sua sinistra il monte più alto dell'isola, il Televrin. Come viva e cosa provi un bimbo autistico lo sa solo chi trascorre il suo tempo con lui; persone che per cause diverse sono precluse alla vita di relazione come noi l'intendiamo, ma non alla vita nella sua interezza. Come noi hanno la loro tavolozza emotiva, solo con colori diversi dai nostri, e come noi anche tra loro si differenziano.
Appena Mario posò lo sguardo sugli scogli gli parve di vedere un bambino con accanto la madre. Sembravano proprio Marta ed Elia! Emozionato allungò il passo e vide la piazzola dov'era parcheggiata una piccola roulotte... ma certo, il camper l'avevano venduto, poteva essere la loro! Non entreremo nei particolari di un incontro che rivelò a Mario come quella simpatia che si esauriva con un saluto era ben più di quanto credeva. Stavolta si sedette e trascorse alcune ore con loro, fu uno dei pochi a cui raccontarono quello che accadde.
Il denaro del camper durò poco e si avvicinava un'importante scadenza. Enzo aveva un disperato bisogno di denaro e dovette recarsi nella sua banca per chiedere un altro prestito.
Per la negativa risposta usarono il solito modo ipocrita come si usa in questi casi, badando a che la forma nasconda il luccichio del coltello che ti trafigge...
“Siamo dispiaciuti di doverLa informare che purtroppo la Direzione non ha la possibilità di accordarLe un altro prestito, avendo già prorogato, per ben tre volte contro i nostri interessi, la scadenza di quello in essere..
La crisi investe anche noi costringendoci a rientrare delle somme prestate. Conosciamo la Sua situazione, è un terribile momento... ma dobbiamo render conto ai soci, far quadrare il bilancio e rispettare gli obiettivi. Tutti speriamo in una ripresa che alcuni già intravedono... proprio per cercare di venirLe incontro... ci dia almeno delle garanzie, ci potremmo accordare su tempi più lunghi...”
Uscì dall'ufficio senza dir nulla, neppure salutando. Le garanzie erano l'ultima cosa che ancora aveva la sua famiglia: la bella casa, frutto dei sacrifici di anni. Già il capannone dell'azienda era ipotecato e dei macchinari, avendo la fortuna di venderli, ormai non avrebbe realizzato che un decimo del loro valore pur essendo recenti. Non solo con la banca, avevano debiti anche con fornitori e negozianti. I pochi operai rimasti attendevano ancora mesi di arretrati e quelli già licenziati la liquidazione. Mettere la firma su un'altra ipoteca era chiedere di fumare l'ultima sigaretta concessa al condannato.
Era la fine, non poteva farlo... non restavano che due strade, ugualmente senza ritorno.
Una portava agli usurai e l'altra... a uscire dalla scena permettendo alla sua famiglia di cavarsela, sfruttando l'assicurazione sulla vita che stipulò quando le cose andavano bene.
Era da tempo che ci pensava e sapeva che doveva apparire un incidente.
Sicuramente avrebbe usato l'auto – la velocità non lascia scampo – conducendola sugli stretti tornanti delle montagne vicine, sino a un punto dove avrebbe frenato per lasciare un segno sull'asfalto ma non abbastanza per non precipitare...
Se c'era una cosa che non avrebbe mai fatto era volare, ma almeno alla fine voleva affrontare questa sua paura.
Marta sapeva leggere nel cuore del marito altrettanto bene che in quello dei suoi figli.
Non si faceva illusioni, immaginando la risposta negativa della banca.
Aveva intravisto nello sguardo di Enzo un'ombra, come si stesse preparando al peggio, e intuì che c'entrava l'assicurazione. Ma aveva deciso di attendere sino al suo ritorno per affrontare direttamente l'argomento, paventando un altrettanto gesto sconsiderato se lui avesse messo in atto il suo proposito. Non era più tempo di mezze misure, c'era in ballo tutto, il futuro e la vita stessa.
Aveva la certezza che Enzo non avrebbe messo in atto il suo piano prima di aver salutato tutti loro, senza darlo a vedere. Era angosciata come mai in vita sua, per fortuna la figlia era fuori con i nonni ed Elia non sembrava turbato dal suo stato emotivo.
Anzi, pareva più interessato del solito a uscire nel giardino, forse dovuto all'interesse per la grande e leggera palla di plastica che il vento aveva fatto rotolare.
Dirigendosi verso la porta passarono davanti alla libreria del salone dove stranamente Elia cercò di prendere un libro. Provando ad assecondarlo Marta notò che un altro libro giaceva per terra accanto al tavolino, forse l'aveva sfogliato il marito la sera prima, quando tardò ad andare a letto.
Lo prese in mano e provò una stretta... un Vangelo! Si impedì di pensare quale stato d'animo lo spinse verso quel libro, visto che non era il suo genere di letture, lo tenne e uscì con il figlio.
Era estate e il giardino, nonostante le cure lasciassero ultimamente a desiderare era uno splendore... o forse proprio per quello. Le diverse essenze non irregimentate si erano fuse assieme e le rose non prevalevano, catturando l'attenzione più che saturandola.
Si sedettero sull'erba ed Elia prese a parlare fra sé, come sovente accade ai bimbi come lui.
Marta fece per aprire il Vangelo ma lo ripose quasi subito per terra, tra lei e suo figlio; non cercava conforto e si domandava perché l'avesse portato.
Si mise a guardare il giardino senza pensare a nulla, da tempo le preoccupazioni le impedivano di goderne come in passato, ma stavolta riprovò la sensazione vitale che fiori e alberi emanano.
In quel momento sentì Elia ripetere in continuazione: “soffia il vento, soffia il vento...” - una ecolalia differita, ripetizione a distanza di tempo di frasi sentite pronunciare.
Non usava spesso il linguaggio e fu sorpresa, ma lo fu ancor più quando un singolo colpo di vento li investì con una forza tale da aprire il libro e scompigliare vesti e capelli. Erano di fronte alla villetta e il vento venne da quella direzione... non era spiegabile a meno di uno spostamento d'aria dovuto a qualche aereo o cose simili. Ancor più strano che Elia l'avesse quasi annunciato, anche se talvolta diceva o faceva cose apparentemente senza un senso immediato, salvo riscontrarlo a distanza di tempo. Uno dei misteri legato alla loro condizione, come l'abilità con i numeri o la capacità di riprodurre fedelmente un'immagine appena intravista.
Dette un'occhiata al libro aperto e lesse: “... a chi ha verrà dato e sarà nell'abbondanza; ma a chi non ha verrà tolto anche quello che ha...”
Ci pensò un attimo e la trovò una frase tremenda, soprattutto perché si adattava perfettamente alla loro condizione. Con un leggero brivido lo richiuse appoggiandolo dov'era in precedenza.
Adesso del giardino percepiva la transitorietà, anche quello gli sarebbe stato portato via.
Stava quasi per maledire l'ingiustizia del mondo quando sentì Elia ripetere nuovamente la stessa frase: “soffia il vento, soffia il vento...” e un secondo identico colpo di vento ottenne lo stesso risultato, far aprire nuovamente il libro e scomporre vesti e capelli.
Se il bambino non si fosse messo stranamente a ridere forse avrebbe ceduto al panico. Da tempo teneva a bada i propri nervi e se ci si mettevano anche fenomeni inspiegabili saltavano di sicuro.
Profondamente turbata decise di rientrare.
Riprese il libro e quasi gli cedettero le gambe... era ancora la stessa pagina.
Si sa che la maggior parte dei bimbi autistici evitano lo sguardo diretto, anche se lo si può interpretare come il loro modo di guardare, indirettamente. Ma per un breve tempo che parve un'eternità Elia fisso la madre come mai fece, e lei sentì che in quello sguardo e quanto accadde c'era la risposta che cercava, portata dal vento.
Si tenne stretta a quella sensazione per tutto il giorno. Passò il pomeriggio e venne sera, ritornarono i nonni con la figlia a cui affidò Elia e andò in camera.
Si mise sul letto e dentro di sé si domandò: “Cosa devo fare...”
La sensazione se ne andò lasciando la risposta nella sua mente. E tutto fu chiaro.
Marta: «Sei finalmente a casa, Enzo. Non ci vuol molto a capire che non c'è stato nulla da fare col direttore, in caso contrario mi avresti telefonato.» Enzo: «Sì, le cose stanno come dici tu... ma abbiamo una possibilità, ho conosciuto una persona interessata a rilevare la nostra azienda, affidandoci la gestione e...» - «No, non mi interessa più l'azienda, la gestione, la casa e tutto quello che ci lega a questo posto, abbiamo già dato troppo per tenere in piedi la speranza che le cose possano migliorare.» - «Ma cosa dici? Che significa?» - «Dico che me ne vado, con tutta la mia famiglia o con i miei figli o anche da sola... ma è sicuro che vado via da qui!» - «Non è possibile! Dove potremmo andare... e come vivremo?» - «Se il tuo interesse è vivere allora verrai con me... perché dovrebbe preoccuparti come? Sicuramente in un modo diverso e senz'altro più umano di questo, strozzati giorno dopo giorno dai debiti e dissanguati dai vampiri della banca.» - «Come ti è venuta in mente una cosa del genere?» - «Quando avremo venduto tutto e saremo lontani da qui te lo dirò, non prima.» - «Ma almeno discutiamone... » - «Tu pensavi di discuterne con me... prima di andare da quella persona che vuole la nostra azienda?» - Enzo abbassò gli occhi, si tenne le mani al volto e finalmente pianse.
Marta gli mise un braccio al collo e gli sussurrò all'orecchio: «Vedrai che tutto andrà bene... e l'anno prossimo torneremo nella nostra isola, ne sono sicura!»
Mario era sbalordito, per il racconto e perché avevano messo nelle sue mani la storia privata della loro vita, dopo che lui li informò di dedicarsi alla scrittura. Ma non dovette preoccuparsi di come chiedere il permesso di usarla, ovviamente dopo aver modificato nomi, luoghi e circostanze. Marta lo precedette e terminò il racconto.
Marta: «Quando chiesi cosa fare sentii la tensione sciogliersi, e apparvero ancora quelle parole... “a chi ha verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha verrà tolto anche quello che ha.”
Lì c'era la risposta, talmente evidente da non riuscire a vederla. Noi eravamo in quella condizione, ci rimaneva poco e ci stavano spogliando anche di quello. Ma se avevamo poco dove eravamo... da qualche altra parte quel poco sarebbe stato molto più di quanto avevano altri.
Io ho studiato un po' di economia e dopo ho capito che quella frase rappresenta anche una legge economica. Più il capitale è elevato e meno hai da temere, sai come si dice... se la banca ti presta centomila euro e non puoi restituirli hai un problema, ma se ti presta cento milioni è lei che ha un problema. Ovviamente non è semplice convincerla, ma qualcuno ogni tanto ci riesce. Noi non abbiamo un talento del genere e dovevamo arrangiarci da soli. Con quello che abbiamo realizzato dalla vendita di quanto ci rimaneva, pagato i debiti, affittammo un casale alla periferia di un bel paese appenninico. Dove abbiamo stabilito la residenza e mandato mia figlia a scuola, nonché ottenuto in breve tempo i permessi per riadattare ad agriturismo parte della grande casa.
Teniamo aperto solo il sabato, domenica e le festività. Gli altri giorni mi dedico all'associazione che ho fondato per dare un aiuto alle famiglie con bambini come il mio.
Le capacità tecniche di mio marito, alla fine di nessuna utilità dove vivevamo prima, qui sono apprezzate al punto che potremmo vivere quasi solo di quello.
I miei genitori credono che sia accaduto un miracolo che ci ha salvato. Anch'io ovviamente penso a qualcosa del genere ma non avendo un'attitudine religiosa la domanda resta in sospeso... anche se due isolati, inspiegabili colpi di vento che aprono per due volte la stessa pagina di un libro, allo stesso tempo che un bimbo l'annuncia sono una incredibile coincidenza.»
Mario: «Come ottenere una serie di doppi sei tirando i dadi... non credo sia solo coincidenza.»
Marta: «Che altro potrebbe essere, secondo te?»
Mario: «La lotteria, ma non quella che tutti conoscono... dopo vi chiarirò cosa intendo.»
Le due storie all'inizio del capitolo hanno qualcos'altro in comune oltre alla situazione disperata e senza scampo, l'imminente fine e l'inutilità di qualunque azione.
Entrambe finiscono dopo un volo; per un breve tempo l'aria venne attraversata dalla macchina ormai incapace di sostenersi e dal corpo inadatto a volare. Innumerevoli individui sono morti in circostanze più o meno simili, liberando nel vento da loro stessi creato le ultime emozioni.
Sarebbe potuta finire così anche per Enzo se qualcosa non avesse deciso che era tempo di intervenire per equilibrare la situazione.
Si accomodò nel vento al di sopra di quella casa e usandone la stessa energia ne deviò per due volte la traiettoria, costringendolo a scendere quasi a perpendicolo, come fosse stato la bora, il vento dell'isola.
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Abbiamo già detto come accadde che Mario udì la voce dell'ispirazione, lasciandole da quel momento la porta aperta. Lei non chiese quali orari gradisse, arrivava e cambiava tutto.
Trasformando la consuetudine in imprevisto e la normalità in meraviglia.
Vicino al porticciolo ci sono quattro locali. Il più frequentato è il ristorante proprio sul mare, che fa anche servizio bar. Un altro ristorante si trova ai piani superiori di un vecchio edificio e ha una piccola terrazza con due tavoli, oggi riparati da un telo. Anni fa delle vecchie piante di vite risalivano per metri il muro andando a coprire con le loro foglie la terrazza. Già allora risentivano il peso degli anni e di una cura approssimata, non riuscendo a farlo per intero. Ma anche così, o forse proprio per quello, l'ombra che produceva rinfrescava e dava un senso di tranquillità.
I rimanenti due locali sono bar. Di uno abbiamo già parlato, un posto per marinai con le bevande adeguate. L'altro un caffè pasticceria con analcolici e gelati. C'era quarant'anni fa e mi auguro ci sia ancora in futuro per voi, se capiterete da quelle parti.
È una delle mete preferite di Mario e quel giorno scelse apposta l'ora più calda e tranquilla per recarvisi, poco prima dell'una.Le poche centinaia di metri percorse sotto il sole cocente gli avrebbero reso ancor più piacevole la sosta. Quello fu il primo locale dell'isola dove sedette, allora bevendo una limonata fresca da mezzo litro, seguita da un'altra più piccola e, finalmente dissetato, da un caffè. Gli esercenti – gli stessi da quei tempi a cui si sono aggiunti alcuni ragazzi, probabilmente i figli – sono macedoni, di cui si dice abbiano propensione per tale attività.
Ce n'erano anche nell'altra cittadina, Osor, proprio sulla strada, ma il loro chiosco che pure avevano rimodernato e ingrandito, da qualche anno non c'è più. Ulteriore motivo per continuare a frequentare questo ancora attivo.
Mario non sopporta molto lo zucchero, ma fa un'unica eccezione per quella limonata, anche se oggi ne beve un bicchiere normale, ancora seguita da un caffè.
Una volta c'erano solo i tavolini con i loro ombrelloni sulla strada e nemmeno in tal numero. Poi hanno realizzato una zona riparata e coperta che col tempo è stata accettata dal luogo e anche sedendo là non si avverte uno stacco.
Già sapete come per Mario un bar non sia solo un posto e la strada per giungervi non sia solo asfalto, sassi o terra. Un bar può riservare un incontro e la strada una sorta di preparazione a quello.
Il verso dei gabbiani che volteggiano sulla spiaggia contigua al ristorante non lascia dubbi. Si tratta di cibo e del loro modo di reclamarlo. Cibo non per l'uomo, le interiora dei pesci puliti in riva al mare dai garzoni di cucina e gettati in acqua a compensare la loro pazienza e perché no, la compagnia. Grazie a quell'abitudine la colonia di qualche decina di esemplari offre alla vista i loro morbidi volteggi, il colore dal bianco degli anziani al grigio dei giovani, il galleggiare placido sull'acqua e lo stridio del loro richiamo a chiunque passi, sappia apprezzarlo o meno.
Non è il solo posto dove vige questa consuetudine con gli scarti. In un altro luogo li usano in modo diverso. Gettano le interiora sotto riva, troppo vicino perché gli uccelli osino avvicinarsi, con qualcuna a nascondere degli ami per pescarne degli altri pesci, a loro volta fornitori delle stesse. Anche lì troverete pesce fresco ma lo mangerete da soli, senza la compagnia del regno alato.
Quell'ora ha di speciale il dominio incontrastato della luce.
Alle cose abituali non si presta attenzione. Che differenza fa una inclinazione di luce piuttosto che un'altra? Nessuna, se dovete solo riconoscere e dare un nome a quanto vedete. Basterebbe anche la luce di una candela.
Se fosse così per quale motivo un pittore come Cézanne avrebbe dedicato così tanto del suo tempo a ritrarre innumerevoli volte sempre la stessa montagna, la Sainte-Victoire?
Studi, stravaganze, fissazioni o c'era dell'altro? Se c'era, come ogni pittore lasciò i suoi dipinti a testimoniarlo; al pari di una mappa del tesoro indicano qualcosa di prezioso.
Gli occhi di un pittore non sono diversi dai nostri, come non lo sono le orecchie di un musicista o le mani di uno scultore. La differenza la fa l'ispirazione, quando entra in campo si frappone tra i sensi e il cervello che elabora l'informazione. Affrancandoli per poco o tanto che sia da quel giogo, oggi potremmo dire da quel computer che abbiamo in testa.
Molti ricercano tale condizione, avendola intravista o intuita. Per giungervi la strada è tutt'altro che facile da percorrere, per giunta senza un esito certo, visto che è lei a decidere se presentarsi o meno.
Molti prendono quelle che ritengono delle scorciatoie, pur pagandole a caro prezzo. Droghe, pratiche fisiche e mentali di ogni sorta. Con lo scopo se non di mettere in sospensione la normale attività cerebrale – una sorta di standby – almeno di intralciarla.
Senza la valvola di riduzione ‒ come la definiva Aldous Huxley ‒ all'opera nel cervello, anche un particolare può rivelare l'universale. Ammesso che l'uomo possa comprenderlo, quali strumenti userà?
Lasciato il volante, chi lo terrà in strada? Quando riuscirà a riprenderlo nelle mani, posto che non sia precipitato da qualche parte, valeva davvero la pena assumere quantità crescenti di sostanze psicoattive, dedicare ore a pratiche fisiche e mentali per ritrovarsi ogni volta al punto di partenza?
Di nuovo le stesse sostanze e gli stessi esercizi il giorno dopo, e così di seguito. Forse non sono vere scorciatoie, ma strade senza uscita. Vicoli ciechi.
Ma se accadrà che sia l'ispirazione a farvi da guida, dopo avervi mostrato quanto dell'universale potete assorbire senza danno, vi riporterà al punto di partenza permettendovi di serbarne un ricordo non solo chiaro, ma vivo nella vostra mente. Sufficiente a non desiderare altri viaggi se non in quel modo, in sua compagnia.
Tornando a Cézanne, cosa indicano tutte quelle mappe dipinte della montagna? Quello che vedete: la luce, il suo potere. E un altro potere, quello della forma, apparentemente svincolato da quella. La luce che non solo permette di vedere il monte ma lo trasforma in qualcos'altro di sorprendente e addirittura di diverso da un giorno all'altro, da un'ora all'altra.
Cosa fosse quel qualcosa riguarda il pittore e la sua guida, che tuttavia gli ha concesso di trasportarne una parte sulle tele per farle vedere a noi. Mario se la cava appena con la pittura ma non cercherà mai neppure di tentare un'esperienza come quella di Cézanne. L'ha fatta lui per tutti, un'esperienza grandiosa, a suo avviso. Ci sono così tante indicazioni, perché ripercorrere la strada di un altro per una in particolare?
Solo le rondini, volando abilmente a pochi metri di quota, addirittura dentro al ristorante di fronte, pagano il tributo al regno dell'ombra, per conto di tutto e di tutti.
Non ci sarà mai un'unica condizione. Per quanto minima c'è luce nell'ombra e viceversa. La luce dall'alto genera l'ombra sotto gli uccelli. Così rapida da sfuggire alla vista. Ma Mario è lì anche per quello.
A un tavolino di fronte è seduta una signorina in attesa del compagno che è andato a pagare. Tiene le punte dei piedi volte all'interno ed è indaffarata a frugare nella borsetta. Sistema le sigarette, poi la macchina fotografica e quindi le banconote, mettendole in ordine crescente nel portafoglio.
Torna l'uomo e lei si alza, ma prima di allontanarsi getta un'occhiata a Mario che non la stava guardando, discretamente, per quello che era – una ragazza carina – ma per quello che faceva e come lo faceva. Stava cercando di mettere ordine nella sua vita, lo si fa anche per le piccole cose.
I piedi all'interno, come le bambine usano tenere, rivelavano che l'età esibita non corrispondeva a quella interiore. Un disagio latente e un'occhiata a cercare inconsciamente un aiuto. Per mille motivi si cresce troppo in fretta. Per uno solo si desidera tornare indietro, ridiventare tutt'uno. Così che bisogni e desideri siano gli stessi, come accade ai bambini.
Da destra arriva a piccolissimi passi, quasi sospesa nell'aria, una vecchietta davvero piccola ed esile. Nel darle un'età potreste sbagliare anche di dieci anni. E di dieci chili per il peso.
Sono anni che Mario la incontra, non ricorda più quando fu la prima volta. Forse l'ha sempre vista, pressoché uguale; quando si è davvero vecchi il tempo produce cambiamenti meno repentini nel fisico. E ancor meno nella mente, a meno di malattie.
Indossa un vestitino leggero e un gilet, e cammina puntellandosi con ambo le mani la schiena. I numerosi capelli bianchi e diritti le arrivano poco oltre il livello del mento. L'anno scorso passò tenendo in mano una scatola di caramelle e l'identica espressione nel viso, un sorriso appena accennato e gli occhi a guardare un mondo che non coincide col nostro.
Incrocia due uomini che la osservano curiosi, probabilmente per la prima volta. Uno di loro, pesante e muscoloso, potrebbe spostarla con un soffio. Chissà qual è il vero motivo per cui gli viene da ridere, dicendo qualcosa all'altro.
Passa la vecchina e passano i due uomini, dov'è la differenza, alla fine?
Il molo si vede per tutta la sua lunghezza, una trentina di metri. Ricordate il capitano, quello grosso e tutto vestito di bianco che arriva in bici?Eccolo lì in fondo che riceve del denaro dall'uomo sceso da una barca di quindici metri.
Non finisce qui, costui pare lamentarsi di qualcosa, l'altro allarga le braccia a dire che non si può o poteva far nulla. Continua allo stesso modo per un po', ma sarà un caso che dopo un ulteriore passaggio di banconote il colloquio riprenda con ampie descrizioni e reciproca soddisfazione.
La vecchietta ritorna da dietro il bar, dove usa sedersi su una panca, dirigendosi al telefono pubblico, fissato sullo spigolo della costruzione di fronte alla pasticceria. Proprio là fuori c'è il motore del condizionatore del market, una colonna sonora non proprio adeguata, ma è più il calore che emana a impedire lunghe e distese chiacchierate. Per chi volesse resistere, quest'anno ci pensa la cornetta a troncarle in fretta: si sente ma non invia la vostra voce. Peccato, perché è molto più economico dei telefonini.
Di tre che ce n'erano un altro è stato tolto. L'unico superstite è ovviamente il più distante, all'esterno dell'ufficio postale e spesso c'è la coda. Da dove siede, Mario non vede se la vecchina stia davvero armeggiando col telefono. Comunque sta lì per un po', forse non è più in grado di usarlo l'apparecchio, così immagina lo faccia per finta, senza spostarsi per verificarlo.
L'immaginario ha sovente più fascino della realtà. In seguito la donna gli ripassa davanti, sarà l'ultima volta che la vedrà quest'anno. Spera di rivederla nel prossimo, per tutti e due.
E di provare ancora quella spolveratina di contentezza al suo passaggio, leggera come il suo sorriso incorniciato dai bianchi capelli.
Nel cinema della vita si presenta un'altra ragazza con un vestito leggero a fiori, un cappello e un ombrellino rilucente di bigiotteria. Forse lo usa a causa del sole, ma sicuramente non per esibirsi, come conferma la sua andatura talora incerta. Un'immagine un po' all'antica, un quadro di Monet in movimento.
Allontanatasi quella ecco arrivare una giovane coppia con i caschi da moto sottobraccio. Che siano nuovi del posto lo si capisce da come si guardano attorno, ancora incerti sulla scelta del locale per una sosta. Alla fine si siedono nei tavolini sulla strada deserta e lui si affretta a ordinare.
Studiano la mappa dell'isola e a Mario, l'unico altro cliente, non dispiacerebbe essere interpellato per un consiglio. Ma la ragazza continua a dargli le spalle e il compagno non lo degna di uno sguardo. Consumano in fretta e lui va velocemente a pagare, ignorando, quasi calpestandolo, un cuscinetto verde delle eleganti e leggere sedie di alluminio (hanno investito, occorre dirlo) fatto volare a terra dal maestrale odierno. Lei no, con naturalezza, quasi fosse di casa sua lo raccoglie e lo riposiziona con cura... così il vento potrà giocarci ancora, fin quando il cameriere deciderà se sia il caso di intervenire.
Mario si domanda se ritorneranno mai in questo bar, ma quella disattenzione maschile non gioca a favore, il posto si coglie subito.
Rimasto solo, una ballerina, piccolo slanciato uccellino con la coda lunga quanto il corpo e di colorazione grigio chiara non appariscente, si aggira per i tavolini. Sono giorni che la vede, deve aver stabilito la sua residenza nei pressi e si muove senza timore, pur se più circospetta di un passero.
Ha un buffo modo di camminare, allunga le zampine con le dita stese e bilancia il corpo muovendo avanti e indietro la piccola testa e ancor più la coda, a toccare terra. Decisamente elegante, il nome non le fu dato a caso. Per ricordarla Mario lo userà anche per il bar, da quel giorno diventato il bar della ballerina.
Passa un uomo col figlio. Lo stesso incrociato giorni addietro in un paesetto sulla collina sovrastante. Allora non gli prestò attenzione, intento com'era ad ascoltare quello che pareva lo strano richiamo di un altro uccello mai udito prima. Ritmico, si avvicinò alquanto prima di scemare. Se non gli avessero detto che il suono proveniva dalle ciabatte dell'uomo si interrogherebbe ancora sull'ignoto volatile.
Un anziano prende le sigarette dall'auto posteggiata a ridosso del bar, qui le regole sono ancora elastiche, per fortuna o purtroppo, a seconda dei casi.
Ormai è tempo di tornare e mentre si appresta a farlo un ragazzino sfreccia su una mono-ruota come quelle da circo. Che bravo! Da giovane gli sarebbe piaciuto provare.
La ragazza coll'ombrellino ritorna a sua volta, depone il contenitore vuoto di una bevanda nel cestino, precedendo di poco Mario. Lui nel sorpassarla nota i suoi bassi sandali variopinti, in tema col resto dell'abbigliamento. Sono di un paio di numeri più piccoli tanto che soprattutto il tallone destro sporge abbondantemente. Che strano, tanta cura per l'insieme leggermente compromessa da questa apparente disattenzione. Verrebbe quasi da chiederne il motivo, questo sì che è un bel mistero!
In meno di una sola ora Mario raccolse tutte queste immagini di vita, domandandosi, quasi fossero foto, se il rovescio fosse un uniforme colore biancastro o vi sia qualcosa di invisibile ai nostri occhi che le colleghi.
Vedere, anche solo per un attimo la trama nascosta delle relazioni tra le persone e tra loro e le cose, sarebbe oltre la capacità umana. A meno di non affidarsi alla fantasia...
È sera, guardando il telefonino tra le chiamate perse ne compare una dalla Croazia. Non è uno dei soliti avvisi pubblicitari o di informazioni, arriva proprio da un telefono di qui, e l'ora... quasi le due di oggi.
Chissà come gli viene in mente che sia la telefonata della vecchietta. Forse è un segno che anche le immagini hanno una loro vita e, a volte, autonomia.
Ma come non guardò se la donna telefonava per davvero, così cancella il numero prima di memorizzarlo, per non essere tentato di confrontarlo con quello dell'apparecchio.
Permettendo in tal modo all'immagine di continuare a esistere.
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8° capitolo: Mer e lumièr
La splendida isola ha nel mare la sua grande attrattiva.
Una sconfinata superficie a separare due mondi – il liquido e
l'aereo – entrambi negati alla vita dell'uomo, il terrestre. Che non ha mai
tollerato quel divieto, inventandosi ogni sorta di espediente per estendere
anche in essi il suo dominio. Per l'aria è stato difficile; l'acqua è più
tollerante a causa della parentela con quella del corpo umano, la maggior parte
del suo peso.
Ma la cosa si ferma là, pur sopportando ogni sorta di abusi
nessuna acqua sarà mai completamente domata. Il magro torrente estivo può
irrompere centuplicato di peso e forza a sradicare le costruzioni che si sono
appropriate delle sue golene. Quello che sono capaci le onde del mare ognuno lo
conosce. Il fuoco almeno lascia la terra, mentre l'acqua non lascia nulla.
Quando è tranquillo il mare dissimula la sua potenza.
Tuttavia la sua stessa natura è pericolosa per l'uomo. Basta
poca acqua respirata a ucciderlo, per questo la cautela non sarà mai troppa per
chi vi nuota o si immerge.
Ma assieme a questa mi permetto di suggerire un atteggiamento
di rispetto.
Ero nell'isola di Cefalonia, dove vi sono spiagge davvero
grandi.
Tra queste in particolare Petani, dal fascino ancora
selvaggio.
A quel tempo nuotavo a lungo e attraversavo specchi d'acqua
profondi centinaia di metri senza il minimo timore, osservando affascinato la
luce spegnersi man mano in profondità.
Pinne, maschera e boccaglio e partivo, sino a raggiungere un
punto distante e ritorno, a volte da una costa all'altra.
Quel posto si prestava a tale possibilità. Distante qualche
centinaio di metri vi era un'insenatura con una spiaggetta, l'ideale per
riprendere fiato prima del ritorno.
Il mare a riva era mosso e l'onda spumeggiava. Pochi metri e
il fondale scendeva ripido, a tratti abbastanza profondamente. Rocce, alghe e
pesci in quantità catturavano l'attenzione rimasta libera dall'impegno di
mantenere il ritmo del nuoto.
Fin dall'inizio il mare manifestò la sua disapprovazione per
la mia spavalderia, e giunto al largo fu la volta di onde lunghe e tuttavia
irregolari che richiesero un surplus d'impegno.
La spiaggetta la raggiunsi in più tempo del previsto e
durante il breve riposo avvertii una sensazione di freddo. Mi decisi a tornare
senza indugio, qualcosa non andava. In parte era una questione di zuccheri, per
un impegno del genere ne servivano più di quelli assunti a colazione.
E naturalmente – previdenza zero – non avevo portato nulla.
Un piccolo intermezzo: una volta durante una sosta per
riposare in un sentiero di montagna arrivò un ragazzo in mountain-bike. Doveva
essere in sella da ore e si fermò chiedendo se avevamo qualcosa di dolce. Era
pallido e un po' incerto. Gli demmo quanto avevamo, tre o quattro frutti che
mangiò sul posto ringraziando. Per dire, senza cercare scuse, che accade a
tanti.
Il ritorno fu un'odissea. Dopo appena poche bracciate l'onda
lunga si sincronizzò sulla mia difficoltà. È quel tipo di onda che produce la
nausea, il mal di mare a chi sta in barca. A me provocò disorientamento e
insicurezza. Era la prima volta che in acqua provavo una sensazione del genere.
Reagii concentrandomi sul movimento di braccia e gambe. Ma il
fondo del mare che mi aveva sempre affascinato ora mi incuteva timore. Se
permettete al pensiero di continuare su questa strada arrivate al panico. In
mezzo al mare, tra le onde e con poca energia non era proprio il caso.
Tolsi maschera e boccaglio e nuotai guardando la costa.
Stavolta ci si misero le vertigini a far ondeggiare minacciosamente ogni
riferimento, e non smisero neppure nuotando a dorso.
Per farla breve mi sono avvicinato molto lentamente alla
costa, dicendomi a ogni metro che c'era un metro in meno. Allungai il tragitto
più del doppio e appena individuai un varco tra scogli e onde raggiunsi terra e
tornai camminando a piedi nudi tra le rocce. Impiegai tre volte il tempo
dell'andata e chi mi aspettava tirò finalmente un sospiro di sollievo.
Ci misi un bel po’ a riprendermi. Non era solo questione di
zuccheri, quelli li reintegrai in fretta. Avvertivo che erano successe alcune
cose dentro di me.
Lo sentivo con sicurezza, meravigliato e sbigottito al
contempo.
Ero assolutamente certo di averla scampata per un pelo.
Qualcosa mi diceva: "sei stato risparmiato, non
accadrà un'altra volta."
Un'altra cosa la scoprii il giorno dopo durante una breve nuotata
in uno specchio d'acqua tranquillo. Appena un po' distante da riva ritornò
l'identica sensazione di timore.
In seguito provai molte volte a testare i miei nuovi limiti.
Nulla da fare, quello fu il prezzo, moderato in verità, per
aver avuto salva la vita.
L'ultima cosa da riferirvi fu un gesto che da allora mi viene
istintivamente da fare quasi ogni volta che entro in acqua: metto il palmo
della mano sulla superficie e chiedo mentalmente il permesso.
Solo dopo inizio a nuotare, entro il limite di cinque-sei
metri al massimo di profondità.
Ma entro quel limite ho imparato a osservare con cura e
soddisfazione.
Basta immergersi un paio di metri trattenendo il respiro per
scoprire un altro mondo.
Chi non ha provato almeno una volta? Ma per rimanere
sott'acqua più del tempo che riteniamo essere la nostra autonomia serve
l'interesse.
Io faccio così, individuato un posto mi immergo e mi aggrappo
a una pietra sul fondo.
E con calma guardo da destra a sinistra. Man mano arriva
qualche pesce a curiosare, attendendo che quella pietra gliela rovesciate per
invitarlo a pranzo.
Se lo fate ne arriveranno altri e poi compaiono quelli più
grossi, a regolare il traffico. E tutto questo spettacolo davanti ai vostri
occhi, senza nessun bisogno di qualche cibo particolare. Vi garantisco che così
facendo l'aria nei polmoni vi permetterà un'apnea ben maggiore, l'interesse fa
miracoli.
Esaurite le portate di quel pranzo riprendo a nuotare. Appena
mi giunge il riflesso argentato del guscio di un'orecchia di mare ne calcolo la
profondità. Mi sono imposto di non superare i 3 metri anche se talvolta oltre
quella ne individuo di enormi.
A causa di problemi a un'altra orecchia, la mia.
Tutta la faccenda e le coincidenze mi intrigano, che dire
dell'usanza di avvicinare all'orecchio una grossa conchiglia per sentire il
mare, come ci dicevano da piccoli?
Spero che continuino a insegnarlo anche i genitori d'oggi.
Poco oltre ecco un gruppetto di Pinne Nobilis, grandi
molluschi bivalvi che si ancorano stabilmente sul fondo col bisso, un filamento
resistente quanto la seta usato in passato per preziosi tessuti destinati ai
re, papi e zar. Sono di misura medio-piccola ma è già un buon segno che ci
siano, visto come sono state predate negli anni. Tengono le valve aperte e si
vede chiaramente l'apparato filtrante.
Ricci qui ce ne sono in quantità, quelli piccoli e neri con
lunghi aculei e altri grossi come pompelmi, con tonalità sul violetto e aculei
più corti e meno aguzzi.
Hanno l'abitudine di ornarsi con quanto trovano: sassi e
conchiglie, pezzetti di legno o di alghe.
A volte pezzi di vetro. Come riescano a manovrare la
bigiotteria per agghindarsi meriterebbe delle riprese, anche se suppongo
avvenga di notte, al riparo da occhi indiscreti.
Devo dedicare un paio di righe ai due che ho visto oggi.
Erano di quelli grossi, distanti tra loro non più di una
ventina di centimetri.
E entrambi condividevano uno stesso nastrino blu!
L'avevano quasi equamente diviso e ognuno ne aveva qualche
spira sopra di sé.
Forse stavano vicini apposta, per non tendere troppo quel
legame. Una delle poche volte che ho rimpianto di non avere una macchina
fotografica subacquea, anche da pochi soldi.
Prima di uscire dall'acqua do un'occhiata a quelli che io
chiamo pescetti di scoglio, non desiderando ricercare il loro nome
corretto. Ve ne sono di tanti tipi e di dimensioni diverse. Lunghi da pochi
centimetri sino a una decina hanno colori prevalentemente dal grigio al
marrone. Vivono negli scogli rifugiandosi nelle innumerevoli cavità. Sembra che
apprezzino di avere poca acqua sopra di loro ed è frequente che si lascino
scoprire dalla risacca.
Qualcuno addirittura si sposta da una pozza all'altra usando
le pinne ventrali. Quello che ammiro di più ha il corpo di un rosso carminio e
la testa nera, ne ho visti lunghi quattro centimetri al massimo.
La mia predilezione non è solo a causa del colore che pure ha
la sua parte, distinguendolo dagli altri. Fu con un suo pari che cominciai a
giocare, avvicinando pian piano l'indice sino a quando si ritirava. Per
ricomparire seguendo un'altra strada.
Con molta pazienza sono riuscito ad accarezzarlo leggermente,
più volte. Molte cose si dimenticano, difficilmente un contatto con un altro
essere vivente nel suo ambiente naturale, anche se non della taglia di un
delfino. Ho ripetuto lo stesso gioco in altre occasioni, riuscendovi ancora.
Sono certo che quello che l'ha permesso fu la percezione
della mia pazienza da parte sua.
Se volete mettere alla prova la vostra il pescetto di scoglio
è un ottimo candidato.
Il bagno è terminato, sono arrivato in kayak in questa
insenatura riparata dove ho potuto legarlo facilmente senza doverlo issare a
riva. In un ampio raggio attorno a me non c'è nessuno, solo le aspre rocce
della scogliera verso il mare e ancora rocce in salita dalla parte opposta. E
il sole che diventa sempre più accecante e caldo. Giusto il tempo per una
bibita prima del ritorno.
Per sedersi con un minimo di comodità ripiego in tre
l'asciugamano, usandolo come cuscino.
Sorseggiando la bevanda non posso fare a meno di ammirare, in
ogni anfratto e sul terreno, la fioritura del limonium virgatum, innumerevoli
piccole piantine dall'aspetto scheletrico ma del tutto ricoperte da minuscoli
fiorellini lilla. Mi riprometto di confrontare questa tinta con quella della lavanda vera, un'altra mia passione.
Anche in questa pietraia arrivano da chissà dove le api a
bottinare i fiori.
Due-tre per metro quadrato si danno un gran daffare non
tralasciando nessun fiorellino, neppure quello schiacciato dalla mia ciabatta
da mare, quasi un invito a spostare il piede e con quello la mia persona.
Una volta a casa mi accorgo che manca un copri-cerchione
dell'auto, parcheggiata come quasi tutte sulla strada. È lì da qualche giorno e
sono certo di non averlo perso correndo. Ogni tanto accade che vi sia un po' di
vandalismo e forse in questo caso potrebbe trattarsi di un furtarello, meno di
una decina di euro in recupero, più una scocciatura che un danno.
Ma tant'è, anch'io ho rubato un tempo.
Più esattamente, da giovane minorenne squattrinato non ho
restituito quanto trovai.
Non era molto in sé ma lo era per me.
Lo considerai un colpo di fortuna, forse dovuto, ma il senso
di colpa mi assalì quasi subito.
Probabilmente nasce da lì il racconto del signor Brix.
Anni dopo trovai in una cabina telefonica un plico con del
denaro e cambiali esigibili... portai tutto al proprietario, che amministrava
la squadra di basket della mia città.
Mi dette in premio un abbonamento per il nuovo campionato.
Non era il mio sport, comunque accettai, facendolo intestare
a mio fratello.
Non parlai minimamente della ricompensa che spetta a chi
ritrova valori.
Poteva essere una bella cifra!
L’importante era sdebitarmi almeno in parte con la mia
coscienza.
Mi hanno rubato altre cose nel tempo, l'ultimo episodio
l'anno scorso proprio nel mio ambiente di lavoro, ben duecento euro appena
ritirati per pagare una bolletta. Denunciai il furto commesso in un luogo
pubblico, non era il primo e sono continuati, pur conosciuta, la mano furtiva
dimostra una certa abilità, agendo al momento propizio.
Comunque oggi direi come J.W. Goethe ai suoi tempi: “invecchiando
si diventa più tolleranti, non vedo commettere nessun errore che non abbia
commesso anch'io.”
Un errore però si fa una volta, non diventa una professione.
Dopo pranzo trascorsi un'ora al solito bar della ballerina
avendo con me un biscotto per l'elegante uccellino che non mancò di farmi
visita. Mi sedetti a un tavolino ben distante dal banco gelati; ci si abitua,
ma che pace quando periodicamente si arrestano i compressori dei frigoriferi!
Passò il capitano, il responsabile del porto, e mi salutò con
un cenno.
Rimasi sorpreso e ricambiai, forse dopo avermi visto tante
volte non ricorda se effettivamente ci siamo anche presentati, d'altronde
conosce ed è conosciuto da tante persone.
Forse perché un saluto spontaneo emana del calore umano il
primo pensiero fu di rileggere quanto scrissi di lui, per vedere se non era il
caso di farlo apparire meglio nel racconto.
Al ritorno, l'ultima cosa che mi sarei aspettato, appoggiato
a un muretto una decina di metri da casa rieccolo là, il copri-cerchione! Forse
avevo già pareggiato il conto per quella volta che rubai?
Una delle mie specialità sono i “ritorni ricorrenti”,
rivedere a distanza di anni luoghi che mi sono piaciuti. Dedicai quel
pomeriggio a un paesetto sulle colline occidentali, a strapiombo su un'immensa
baia.
A differenza di un tempo, a meno non siate residenti o muniti
del pass di qualcun altro per usare l'auto, per arrivare al mare dovete
scendere un chilometro di una ripida discesa.
Ovviamente il problema è al ritorno.
Nella baia più grande e sassosa, la migliore per fermarsi,
uno dei passatempi preferiti è attendere che i nuovi venuti, accaldati,
decidano di fare un bagno nelle acque cristalline.
Il divertimento consiste nel vedere le loro espressioni
stupite – come la mia la prima volta – a causa delle sorgenti d'acqua dolce
gelata che qui fuoriescono in gran quantità e in minore nella baia dove
alloggio.
Ragion per cui le nuotate sono brevi.
Un ristorante con la scritta buffet sulla parete esterna vi
accoglie all'inizio del paese.
L'aspetto è sempre quello dimesso di allora, ma ad appena un
metro dall'entrata troneggia un enorme e meraviglioso albero di pesco carico di
frutti grossi e maturi.
Non è frequente vedere un esemplare di tali dimensioni in
così buona salute.
La parte sporgente sulla strada pubblica è la meno fornita di
frutti, tuttavia non è il caso di verificare se siano anche accessibili ai
passanti.
Il resto del paese riserva una sorpresa, è stato ripulito e
abbellito e molte case sono state ristrutturate. La luce oggi è straordinaria e
la visione della baia, scendendo appena per qualche decina di metri lungo la
strada, lascia stupefatti.
Non me la ricordavo così bella, l'impressione è tale da farmi
fermare per prendere informazioni riguardo un futuro alloggio.
Restai quasi un'ora e me ne andai con una sensazione
indefinibile; qualcosa mi era rimasto appiccicato senza riuscire a coglierlo.
Poco prima di Nerezine hanno costruito un grande distributore
per auto e barche, vicino a una spiaggetta con acqua poco profonda, disseminata
di piccoli scogli.
Un posto che chiunque avrebbe ignorato è diventato negli anni
un luogo di ritrovo per merito dello spirito imprenditoriale di qualcuno che
non conosco, a cui rendo merito.
Se prima si fermavano alcune auto ora il posteggio ne ospita
decine e il locale, un grande chiosco sulla spiaggia dove hanno steso uno strato
di sabbia, è di dimensioni ragguardevoli.
Potete bere, mangiare, affittare ombrelloni e sdrai o venirci
di sera quando l'attrattiva è la musica che non disturba la cittadina ben
distante da qui. Tanto di capello.
Nerezine è stata sollevata dal traffico di passaggio dalla
nuova strada che corre più in alto, sicuramente un gran beneficio per tanti, a
fronte di qualche esproprio per realizzarla.
Proprio a pochi metri dalla nuova arteria si trova una casa
che frequentai molto in passato, per l'amicizia che mi legò ai suoi
proprietari. Prima era immersa nella tranquillità.
Ma le cose cambiano e le amicizie con esse. Ripensavo al
passato passeggiando nel porticciolo quando arrivato al ristorante, il Televrin
– come l'omonima cima più alta dell'isola – una locandina colorata attira la
mia attenzione. È la stessa dell'anno scorso, che guardai distrattamente.
Ora invece mi inchiodo davanti.
Per metà è un acquerello di un paesaggio che si perde nel
mare. Il resto è una scritta multicolore, racconta di un italiano che dipinge
solamente quando è in vacanza qui, facendo tutt'altro mestiere.
E per ricambiare all'ispirazione che gli proviene
dall'isola, espone alcune sue opere nel locale.
La baia del dipinto è quella delle sorgenti fredde ed egli,
d'estate, risiede nel paesetto del pesco.
Coincidenza.
Poi in un lampo ecco rivelarsi il motivo del mio osservare
insistentemente la locandina.
La luce,
un'infinitesima frazione di quella incredibile luce del giorno prima è rimasta
imprigionata nei colori dell'opera. Sufficiente a farmi prendere coscienza
dell'imponenza di quello e di altri fenomeni: com'è possibile che dopo più di
trent'anni che soggiorno in questi luoghi colgo solamente adesso queste cose...
luce, vento e mare, mica bruscolini!
Sì, qualcosa qui e là l'ho sentita. Ho anche dipinto, con
modestissimi risultati, un paio di piccole tele.
Ma ero io che traducevo le mie sensazioni a me stesso.
Ora un po' sento la voce del vento, e un po' vedo la magica
luce di questi posti.
L'acqua invece tratta tutti allo stesso modo, avvolgendo e liberando
da sé la vostra forma.
In quell'altro libro che ho scritto luce e colori hanno un
ruolo importante.
Soprattutto il colore della lavanda e come la variazione
della luminosità produca in essa una risposta sorprendente che non mi sono mai
stancato di contemplare.
Decido di fare un tentativo per conoscere questo pittore, per
confrontare il mio sentire con il suo.
Ritorno nel paesetto del pesco e individuata la casa incontro
la sua compagna.
Fino alle diciotto Giuseppe – il suo nome – riposa, così
ritorno l'indomani a quell'ora.
Per ringraziare del tempo concesso a uno sconosciuto,
abbandonando per questo le già avviate preparazioni culinarie, mi presento con
qualcosa in mano, un melone di quelli gialli: dinja in croato. Mi fa
accomodare sulla terrazza con la vista sulla baia di cui non dirò nulla, se non
che neppure in sogno ho mai visto una simile terrazza.
Come non ho detto il nome di questo posto, tuttavia
facilmente identificabile con qualche ricerca, per evitare per quanto possibile
una pubblicità foriera a volte di inaspettate visite e conseguente disturbo. Il
pittore da sedici anni frequenta l'isola e vi risiede d'estate.
La storia di come arrivò e si stabilì qui è un racconto di
per sé.
Vi sono coinvolte persone del luogo notevoli quanto a
sensibilità, anche artistica.
Intorno a loro e Giuseppe si è creato qualcosa che nel tempo
si è diffuso ad altri, attraverso collaborazioni ed eventi anche pubblici.
Se c'è una parola per descriverlo è ricambiare, o se
preferite reciprocità.
Giuseppe è uno psichiatra con un ruolo di primo piano a
Trieste dove lavora ed è un riferimento nella sua professione.
Fu un collaboratore di Basaglia di cui proseguì l'opera,
questo basta a rivelarne lo spessore.
Se volete un accenno dell'importanza di quanto contro tutte
le regole seppero fare tali persone, leggete questa poesia di Alda Merini
dedicata a Franco Basaglia:
Il vento, la bora, le navi che vanno via
il sogno di questa notte
e tu
eterno soccorritore
che da dietro le piante onnivore
guardavi in età giovanile
i nostri baci assurdi
alle vecchie cortecce della vita.
Come eravamo innamorati, noi,
laggiù nei manicomi
quando speravamo un giorno
di tornare a fiorire
ma la cosa più inaudita, credi,
è stato quando abbiamo scoperto
che non eravamo mai stati malati.
Non parlerò di questo Giuseppe, altri con migliori
informazioni delle mie possono farlo.
Dirò qualcosa dell'altro Giuseppe, il pittore.
Che già al primo contatto ebbe la rivelazione della luce di
questo posto.
L'impatto fu tale da costringerlo a cimentarsi con la pittura,
riprendendo quanto per mancanza di tempo non poté sviluppare, pur avendo
inclinazione e talento.
Mi parlò della luce sulla sconfinata baia a strapiombo che
con continuità cambia colore, tono e intensità. Questo è il modo di vivere
della luce, non altro. Pur così disponibile pochi hanno la sensibilità per
coglierlo, probabilmente solo intuendo di confrontarsi con un fenomeno vivente. Nelle parole di
Giuseppe si avvertiva una sorta di emozione, come se un amico vi raccontasse
del suo sentimento per l'amata.
Come detto prima io ho percepito una piccola parte della
magica luce del posto.
Ma Giuseppe nel tempo ne ha man mano colto l'interazione con
quanto può abbracciare con lo sguardo. Mare, roccia, aria, vegetazione,
animali. Ed esseri umani, in un modo diverso.
Non ho avuto tempo e modo di vedere se non una decina di sue
opere, ancora appese alle pareti del ristorante. Non ho visto figure umane. Se
ce ne siano in altre non penso siano prevalenti rispetto al paesaggio, ma mi
posso sbagliare.
La nostra chiacchierata durò una mezz'oretta, la gran parte
sulla terrazza e la restante all'interno della sua casa dove gli mostrai alcuni
filmati sulle variazioni di colore della lavanda.
Notai l'attenzione con la quale osservava luce e colori,
forse confrontando quel fenomeno con quelli della sua conosciuta baia. Fui
contento dell'interesse per i filmati e l'argomento.
Non che qualcun altro che li vide non li apprezzò, ma quello
che vediamo è quello che riconosciamo, se non si è formata nella nostra
mente la traccia su cui collocare la nuova esperienza, vedremo un insieme di
elementi di cui intuiamo coerenza e profondità ma ai quali manca la parola.
L'esperienza usa le parole che abbiamo dentro di noi, il nostro vocabolario,
per rivelarsi.
È come imparare una lingua, non avviene in poco tempo.
Con Giuseppe c'era un vocabolario comune cui attingere.
Nella sua impegnativa professione di psichiatra egli ha a che
fare con gli elementi primari della mente, che quando per qualche motivo non si
integrano col contesto producono le alterazioni tanto studiate: schizofrenia,
paranoia e altre di cui non ho titolo per parlare.
L'assorbimento in tale professione a volte è tale da porre in
secondo piano i bisogni, e spesso a ignorare persino i messaggi di sofferenza
del proprio corpo.
Che tenacemente cerca una strada per condurre quella mente –
che si occupa di altre menti scombinate – a incontrare altri potenti elementi
primari: terra, acqua, aria, luce...
Sia vero o meno che la vicinanza quotidiana con persone
problematiche assorba la propria energia vitale non si può dimostrare, essendo
quest'ultima ancora un'astrazione per i nostri canoni occidentali. Pure è opinione
comune.
Mi piace pensare che quell'energia profusa nello stare vicino
ai più deboli venga ritornata a Giuseppe sotto forma di luce in tale maestosa
scala, nel palcoscenico grandioso dell'immensa baia a strapiombo, circondata da
pareti di roccia e macchia mediterranea.
Luce, colori... pura
energia che il suo corpo assorbe e rilascia in altre forme, magari come
disponibilità e tempo profuso nel lavoro.
Pura energia di cui è consapevole in modi che i suoi
interlocutori non immaginano.
A volte neppure lui, se non guardandosi sorpreso in quel daffare
di progetti, tele e colori d'ogni tipo, all'inizio per ricambiare l'accoglienza
e in seguito per offrire qualcosa ad altri, spendendo forze e tempo per questo.
Non ho né ambisco alla capacità di valutare un quadro, ma in
altri ambiti ho visto e sentito luce e colori vivere, e talvolta riconosco,
anche se non sempre e immediatamente, se qualcuno è stato toccato da un tale
potere naturale.
C'era qualcosa nel tuo acquerello... dopo ho capito che
conteneva un riflesso di quella luce
vivente vista il giorno innanzi, per questo ti ho cercato per ascoltare la
tua storia.
Non siamo del tutto quel che mostriamo e non siamo ovviamente
perfetti, ma qualcosa ha deciso che ti meriti quella baia come anche lei ti
merita: il suo perfetto innamorato.
........................................
9° capitolo: instabili equilibri
Un giorno mi dedicherò a scrivere per uso personale la prima
volta di ogni cosa nella mia vita.
Chissà quanto riuscirò a risalire la corrente del tempo e
quali pesci leverò da quell'acqua.
La prima volta che lo sguardo di un'altra persona vi arrivò
al cuore. Questa la ricordano quasi tutti. La prima volta che avete bevuto
senza freni, e le sue conseguenze.
O la prima sigaretta, per accedere ai riti di un mondo
adulto.
La prima volta a scuola o contestando la scuola. La prima
violenza gratuita sugli animali.
La prima vacanza o viaggio da soli. Il primo amico, ve lo
ricordate? O il primo maestro, di vita.
Per altri il primo furto, diverso tipo di vita.
Forse un giorno realizzeranno una tecnologia in grado di
accedere ai ricordi e magari di stamparli, se non di guardarli in 3 dimensioni
o addirittura olografici!
Qualcosa del genere si vide in un film di anni fa, Fino
alla fine del mondo di W. Wenders, nel quale uno dei protagonisti
dopo aver goduto di un proprio personale paradiso ha il problema di venirne fuori.
Una prima volta che duri per sempre richiama sinistramente
quell'altro evento che dura per sempre.
La prima volta che avete incontrato la morte, di un parente o
di un conoscente.
E per quanti sentimenti ed emozioni abbiate provato non siete
riusciti a cavarne un ragno dal buco, il fatto davanti a voi non parlava
il vostro linguaggio.
La morte riguarda i morti, i viventi non ne hanno accesso.
Dubitate di chi dice di averci dato un'occhiata.
Possiamo arrivare solo a un istante prima della fine... ma dall'altra
parte, retrocedendo, fin dove si può giungere?
Parlando con parenti e amici si scopre che tutti serbiamo se
non sequenze almeno immagini e parole dei primi anni di vita, segno che
quell'abilità umana incomincia presto.
Più indietro di così la luce che entra negli occhi è solo
luce, non individua una forma. Invece il timbro vocale della madre, se non
anche il suo odore, viene riconosciuto all'istante fin dalla nascita da una
parte antica del cervello umano. Questione di sopravvivenza, l'impulso più
grande in natura.
Dubitate anche di chi dice di aver dato un'occhiata pure da
questa parte, andando talmente a ritroso da essersi ritrovato in una vita
diversa. Basta addormentarsi e sognare per farlo.
Non ho nessun intento di sminuire l'importanza che per alcuni
hanno questi argomenti, cui applico solo un po' di sens of humor.
In questa linea che si srotola nel tempo, la nostra vita, c'è
un punto sostanziale, quello che si potrebbe dire un punto di svolta?
D'accordo, è difficile levare tante di quelle prime volte, come nel gioco della
torre, e rimanere con quell'unica, con la nostra risposta.
Non sarebbe tempo perso se poteste farlo adesso per voi,
prima di leggere qui sotto quella di Mario.
Un bambino di quasi cinque anni. Durante i quali a causa di problemi
legati all'attività del padre per sbarcare il lunario fu costretto a diversi
spostamenti e cambi di residenza.
Normalmente non sono eventi straordinari per i piccoli, salvo
che non si sia formato un qualche legame che viene a mancare. Non era il suo
caso.
Riandate ai vostri primi anni, almeno dopo la conquista della
postura eretta. Tanti episodi ognuno vissuto totalmente. Un pianto di bimbo è
pura disperazione, pura gioia il ridere, non ci sono vie di mezzo. Come i
temporali estivi, potenti e veloci, in breve tempo passano.
Per quanti possano essere, questi episodi rimangono eventi a
sé, che intanto un mirabile congegno organico interno ha preso a registrare.
Il padre di Mario applicava una certa forza nel suo modo di
vivere, anche con i figli.
Talvolta oltre misura, cosa che creava non poco timore in
loro. Per fortuna da piccoli quasi tutti abbiamo avuto vicino una madre, a far
da filtro se non da parafulmine, più spesso impegnata a nascondere le nostre
malefatte che non a reclamare una punizione per queste.
Quel che si dice cuore di mamma, anche se a volte accade il
contrario.
Le tristi situazioni vissute da giovani sono quelle che
segnano di più, graffiando indelebilmente il nostro disco della memoria;
rimarranno sempre, si può solo guardare con compassione a quei ricordi
accettandoli, sapendo che ad altri è andata peggio.
Ma quel giorno qualche santo ci mise una buona parola e
quando Mario fu chiamato dal padre si rilassò a vederlo e sentirlo tranquillo.
Gli disse che l'avrebbe portato con sé – nel furgone che usava per il lavoro –
a visitare la nuova casa dove si sarebbero trasferiti.
Non il fratello maggiore, non assieme alla madre. Solo loro
due. Una cosa immensa.
In quel tragitto seduto a fianco del padre il bambino divenne
Mario.
Il nome con cui lo chiamavano e a cui rispondeva divenne il
Suo nome, nulla sarebbe stato come prima. Senza rendersene conto i suoi occhi
presero a guardare il mondo attraverso il parabrezza del furgone in un modo
diverso: le immagini provenienti dall'esterno avevano cambiato percorso dentro
di lui, allungandolo di un istante, prima di giungere a depositarsi nella
memoria.
Adesso passavano prima da quel Nome.
Ogni esperienza, sensazione ed emozione da quel momento
sarebbero appartenute a quel nome; non più eventi a sé, ma eventi di Mario.
Non fosse accaduto quello che accade a ognuno, la sua vita
sarebbe stata una sequenza senza fine
– sino alla fine – di prime volte. Una tale persona
sarebbe stata estranea alla società, essendo estranea a se stessa. Nessuno che
ci sia con la testa desidererebbe veramente trovarsi in quella condizione,
riservata a chi non si è formato mentalmente, a chi soffre di malattie
degenerative neuronali o, in casi più unici che rari, a una dimenticanza della
natura, che alla morte dell'individuo ‒ dell'io ‒
per qualche evento straordinario, non ne ha preteso come sempre accade anche
quella immediata del corpo.
Come se qualcosa in quel momento l'avesse distratta.
La lotteria, per esempio.
Se in tutto questo discorso vi sarà rimasta l'impressione che
ci sia qualcosa di speciale nelle nostre prime volte di ogni cosa ne
sarei davvero soddisfatto, magari un domani potremmo scambiarci le reciproche
liste.
La prima volta è qualcosa che non conosciamo, o che
conoscevamo solo attraverso le parole.
Ma quelle valgono ben poco, quasi nulla di fronte ai fatti,
come quelli della lista all'inizio del racconto. Le vere prime volte trovano
impreparato quel meccanismo che si è incaricato di gestire il flusso
della vita dall'esterno all'interno di noi. Che viene scavalcato dalle sue onde
anomale facendo squillare tutti i campanelli d'allarme per sovraccarico
d'energia. Per carità, c'è il rischio che salti l'interruttore o che si bruci
tutto! Può succedere. Con la buona intenzione di evitarci danni seri il
meccanismo recupera la padronanza della situazione, in più o meno tempo.
Alla prossima occasione saprà come controllare quella prima
volta, come convogliarla attraverso di sé. L'uccello sarà lo stesso
ma non volerà come prima.
Al massimo il volo di una gallina, con tutto il rispetto.
Ogni prima volta ci riavvicina a quella condizione che
abbiamo dovuto abbandonare per vivere la nostra vita come esseri sociali e
individui, e ovviamente goderne i benefici.
Per Mario le sue prime volte lo riportano a un momento prima
di salire sul furgone del padre, a quell'immensa felicità provata.
Il desiderio di conservarla lo fece diventare un individuo.
Orlec è un paesello a metà dell'isola, sul lato est a
guardare l'orizzonte chiuso da quella di Krk.
Non è diverso dagli altri paesi e uno dei motivi di chi la
sceglie va ricercato nella sua spiaggetta, ai piedi di un imponente strapiombo.
Là sopra il vento non manca mai e non vi è nessuna costruzione; una zona
talmente integra da essere stata protetta, divenuta il regno dei grifoni che
qui hanno trovato le condizioni ideali per invertire la tendenza che conduceva
all'estinzione.
Ammirarne il volo maestoso è il secondo motivo per venirci.
Mario, ma non solo lui, ne ha trovato un terzo che fra poco
scoprirete.
Prima però un solo accenno a quella prima volta che vi
giunse con la sua compagna, di mattina con il sole di fronte a illuminare
scogliere e mare. Da togliere il fiato, come la risalita dalla spiaggetta per
l'unica ripida stradina ormai arroventata.
Non amo le descrizioni puntigliosamente dettagliate, al pari
di quelle brevi non riportano che un bagliore di quanto descrivono, facilmente
offuscato da troppe parole.
Se avrete modo di vedere i sassi arrotondati di quella spiaggia,
di nuotare nelle acque trasparenti magari mentre un grifone volteggia sopra la
vostra testa, o se semplicemente scendendo la stradina darete un'occhiata alla
vegetazione plasmata dal vento e dall'arsura, troverete di certo un motivo, se
non per ritornarci, almeno per dire che ne sarà valsa la pena.
La spiaggia si è formata da una frana che è arrivata al mare.
Quando sia successo è compito di geologo dirlo, abbastanza perché l'aspetto
attuale sembra stabilizzato.
Non del tutto però, una parte della scogliera ha il tipico
aspetto da pudding, agglomerato non molto tenace di materiali diversi
che col tempo e le intemperie va disfacendosi.
Facendolo espone dei blocchi di dimensioni ragguardevoli
inglobati all'interno, come se in un panettone oltre alle tante uvette vi fosse
un'intera arancia candita.
Uno di questi blocchi, el masegno, è il terzo motivo
di cui parlavamo.
Molti non lo notano, all'inizio neppure Mario, intento a
osservare davanti a sé il mare cangiante piuttosto che alla sue spalle
l'immobile e sgretolata parete rocciosa. Dietro di lui due persone anziane ne
stavano parlando, dicevano che erano molti anni che lo tenevano d'occhio,
all'inizio
scommettendo che entro l'anno successivo avrebbe ceduto al
desiderio di immergersi con un gran tonfo nel mare. Ma quello resisteva, a
dispetto di un baricentro che appariva insidiato dall'erosione alla base e ai
fianchi. Chissà cosa avrebbero pagato per essere presenti al momento del tuffo!
Tuttavia c'era un tono che si potrebbe dire affettuoso nei
suoi riguardi, pur essendo null'altro che un blocco roccioso abbastanza rotondo
e di un colore rossastro, niente di speciale da quel punto di vista. Se aveva
qualcosa di speciale era la resistenza, come un bambino che resiste sino
all'ultimo dall'esser messo in acqua.
Immaginate di acquistare una casa con un bel pezzo di terreno
– ve lo auguro – dove un vecchio pino si oppone all'idea e alle geometrie che
avete elaborato con vostra moglie sul luogo.
Dov'è il problema? Si taglia. Ma se non lo fate subito,
meglio se prima di andarci ad abitare, potreste accorgervi che una coppia di
cince si rifugia in un foro del tronco, il loro nido.
Adesso forse è più difficile, bisogna almeno aspettare
primavera quando se ne andranno con i piccoli divenuti autonomi. Con la bella
stagione arriva il sole e quell'albero, per quanto esteticamente lasci a
desiderare, provvede un'ombra già pronta dove mettersi con una seggiola.
Si può sfruttare anche un condannato a morte se la sentenza è
giusta: non voleva saperne di adeguare la sua geometria al progetto. Il
fatto è che proprio non può, troppo rigido e avanti con gli anni per cercare di
imitare i flessuosi bambù neri che dovrebbero prenderne il posto.
Quando ormai in famiglia avete deciso per un grande
ombrellone – già lo vedete, bianco circondato da bambù neri! – e nonostante il
temporale appena passato andate a verificare le misure sotto al pino vi
accorgete che, a differenza di quel telo l'albero emana un odore resinoso,
secco e balsamico.
È il suo modo di parlare, e purtroppo per voi l'avete
ascoltato.
Dovrete cercare un'altra scusa con vostra moglie che era già
sicura di liberarsi una volta per tutte di quegli aghi morti e delle gocce di
resina che talvolta sono cadute dove non dovevano.
Sull'auto messa là sotto al fresco o sui panni stesi. Per lei
è colpa del pino, che c'entri la forza di gravità come per la pioggia è un modo
di sviare il problema.
Quando si è presi tra due fuochi, il desiderio di sospendere
l'esecuzione del pino da una parte, e l'impazienza di chi vi è caro che si sta
domandando se lo fate apposta dall'altra, non bastano le parole per uscirne. In
aggiunta ci si mette anche un dannato colpo della strega a costringervi
a letto una settimana, immobile. Come quel pino che però fa ondeggiare le sue
fronde davanti alla vostra finestra, distraendovi dalla monotonia.
I bambù non arriverebbero a quell'altezza.
Uscire dallo stallo è spesso doloroso. In un modo o
nell'altro è passato un anno e il pino è ancora là. Anche vostra moglie è
ancora con voi, e ha atteso abbastanza.
Nella sua testa la geometria troppo a lungo repressa
reclama soddisfazione, se non l'ha capito sinora che il pino è entrato in voi
difficilmente lo capirà attendendo ancora. Così andate da lei e gli dite che
può e deve fare quello che sente, solo che voi non ci sarete quando accadrà.
Andrete a trovare un vecchio amico o a passeggiare sotto altri pini chiedendo
di perdonarvi, siete solo un uomo.
Questa storia può finire in molti modi. Se non aveste visto
quel pino non sarebbe neppure cominciata – solo legna da spostare – ma non
siete voi a decidere cosa vedere.
Quando accade si stabilisce un legame, di poco conto o solido
si vedrà col tempo.
Quelle due persone anziane dovevano vedere el masegno, come
l'hanno chiamato.
Una palla di pietra dall'instabile equilibrio che sarebbe
stato emozionante veder rotolare, come anche Mario pensò in principio. In
seguito la caparbietà di opporsi all'inevitabile destino parlò ai loro cuori:
resistete, fate come me. Fin che potete.
Si formò un legame – bizzarro, vero? – un legame tra uomo e
roccia, nemmeno bella o di valore.
Un legame tra uomo e qualsiasi cosa vi sia al mondo, sia esso
un altro essere, un animale o un pino. Anche una roccia, certo.
L'uomo della storia tornò a casa che era già buio, per vedere
il meno possibile.
L'odore che lo attendeva lo raggiunse prima di entrare nel
viottolo.
Non era di legno segato, bensì quello solito del vecchio
pino, ancora al suo posto, con la luna imprigionata tra i rami. Gli si
inumidirono gli occhi, evento più che raro.
Non vide la moglie che lo guardava da dietro la finestra, ma
lei aveva visto lui mentre si allontanava quella mattina. Aveva una
certa età ma sembrava più incurvato del solito, forse la schiena, il suo
problema. Lei sentì una lacrima formarsi e fece per toglierla, incontrando
quell'altra lacrima, una goccia di resina del pino caduta giusto in quel
momento sulla sua guancia.
C'erano troppe lacrime quel giorno per non capire.
Era più di vent'anni fa che le due persone anziane parlavano
del masegno.
Potrebbero non esserci più, non saprebbe riconoscerli. Ma
hanno passato il testimone per tempo a Mario che adesso comprende quella
sensazione che lo accompagnava durante la discesa, fino alla curva che apriva
la visuale sulla frana. Forse per loro lo fu inconsciamente, ma a lui l'ispirazione
fa chiaramente intendere che quanto vedrà, se sarà ancora là quando arriverà il
momento di ritornarci, non è solo un pezzo di roccia.
Bensì un amico, intendendo con questa parola qualunque cosa
vi accompagni nel viaggio.
Come vi possa trasmettere un po' di allegria, di forza o di
consolazione non importa.
Importa che accada.
Un equilibrio coinvolge almeno due fattori, ad esempio il masegno
e la base su cui poggia.
Ma a ben guardare ogni cosa tende all'equilibrio. Se lo raggiunge,
per un tempo più o meno lungo gli sarà concessa l'illusione della stabilità e
della durata, prima di dover abbandonare quello stato di effimera eternità per
uno diverso o lasciare il posto ad altri.
Anche la condizione umana è sottoposta in ogni sua
espressione alla stessa legge che permette, mantiene e distrugge ogni
equilibrio.
Sottoposta a sua volta a quella maggiore, la legge della
Creazione.
Nulla può sfuggirvi, tanto meno le relazioni tra le persone.
Mirabili invenzioni della mente umana che hanno così tanta
presa su tutti noi, capaci di rendere la nostra vita un paradiso, il suo
contrario o qualcosa tra i due estremi.
La sola somma di uomini non forma una società, niente riesce
a organizzarsi senza seguire delle regole. Innate, come per le formiche e le
api, o ideate per l'uomo.
Con uno scopo notevole, permettere a ognuno di far parte di
una collettività, dando qualcosa in cambio dei benefici che ne riceve.
Come venga gestito questo flusso di entrate e uscite ha
assunto nel tempo varie forme: re e sudditi, repubbliche, democrazie,
capitalismo e socialismo; sino al rifiuto di ogni regola, l'anarchia.
Che è un'altra regola, per quanto in negativo: un diverso
modo di intervenire su quel flusso, lasciando a ognuno la possibilità di aprire
e chiudere a suo piacere i rubinetti.
Dubito che si possa portare un solo esempio di una società
capace di autoregolarsi per un tempo sufficientemente lungo da lasciare traccia
nella storia.
Pure anche l'anarchia ha un suo ruolo, manifestandosi quando
l'equilibrio in essere manovri i rubinetti al solo scopo di auto perpetuarsi,
tenendo aperti quelli del ricevere e chiudendo sempre più quelli del dare.
In piccola scala anche la relazione tra due persone, il
rapporto, segue le medesime regole.
Ci piaccia o meno senza un flusso costante tra i
sottoscrittori del contratto – in forma scritta o sulla parola – non basterà
l'emozione, il ricordo di poche o molte prime volte a tenerlo in piedi.
Nessuno fa niente per niente, non è questione di interesse,
non c'entrano i sentimenti. Semplicemente senza flusso non può esserci
equilibrio e senza questo i due o più fattori coinvolti rimarranno slegati, a
sé. È quel flusso che permette di ridistribuire il peso dato dai problemi come
la leggerezza quando sono risolti. Per questo la forma di un contratto,
anche se può apparire fredda in realtà si occupa di mantenere aperti i
rubinetti dalle due parti. Se poi la cosa non funziona nel privato come nel
pubblico non è colpa di nessun contratto, di nessuna regola disattesa.
Quell'equilibrio ha fatto il suo tempo, non è più adeguato.
Si può cercare di fare un altro governo o tentare di
riscrivere le regole del rapporto, se si vuole facendosi aiutare da esperti in
ogni settore; nulla di male in ciò, dobbiamo pur guadagnarci tutti da vivere. A
volte riesce, altre no.
Si può sempre cercare di fare qualcosa, la condizione
peggiore è volere mantenere quell'equilibrio però con regole diverse.
Questo proprio non funziona, la stabilità lascia il posto a un continuo
intervenire su un filo sospeso, rispondendo da capi opposti con un'analoga
oscillazione a chi ne abbia prodotta una.
Attendendo la successiva... che potrebbe richiedere una
risposta ancor più marcata.
Questo gioco di oscillazioni, sempre più difficile, quando è
cominciato?
Forse fin dall'inizio, probabilmente succede a tutti, anche
se le modalità di compensarle differiscono, con taluni a cui riesce quasi senza
sforzo.
Sovente una parte disdetta il contratto, non accettando che
la vita (dell'uomo sociale) sia una serie di compromessi. Rifiutare è facile,
basta alzare un muro.
Se provate a giocarci a tennis non c'è verso di spuntarla,
potete solo sbagliare.
A volte facendolo apposta per fermarsi e riprender fiato, pur
sapendo cosa succederà.
Tuttavia non si cade, col tempo si sviluppano non le ali, ma
la capacità di rimanere appesi al filo con un braccio. Se non con un dito.
Una volta, ne era sicuro, neppure più quello. Pure non è
caduto, com'è stato possibile?
Non certo perché all'ultimo momento gli sia stata tesa una
mano.
La distanza era troppa, l'aiuto non sarebbe arrivato più in
fretta della gravità, sempre in agguato.
Non è che ci fosse qualcun altro presente, spesso è un duro
gioco per coppie, per lui e lei.
Qualcuno ci porta anche i bambini, su quel filo, non
trattenendosi dall'usarli per sbilanciare il compagno. Gioco sporco, quella
partecipazione lascerà un segno.
Qui almeno non c'erano.
No, se erano ancora sul filo non si doveva a loro due, né a
qualcun altro.
Abbiamo l'impressione di conoscere almeno le questioni alla
base della nostra personalità: cosa ci piace, cosa vogliamo, quale il prezzo
disposti a pagare per ottenerlo. Col tempo ci aggiungiamo le sensazioni,
condiamo il tutto con i ricordi (tu, quella volta... e tu dov'eri?) e
via, il disco è partito.
Quando si apre la stagione musicale quel tipo di concerti
iniziano al mattino e terminano, talvolta per poche e spezzate ore, la notte.
Svegliandosi nel buio non ci si ricorda all'istante
cosa sia accaduto qualche ora prima, né di stare dormendo da un'altra parte, in
un divano. Beata innocenza.
L'istante successivo si presenta la coscienza con il suo
contenuto.
Non paragonatela al vento o a qualcosa di non sostanziale,
essendo tutto ‒ tutto ciò che c'è è
coscienza, disse qualcuno ‒ può essere quella stretta da qualche parte: testa, stomaco... cuore,
che vi riporta alla realtà in corso.
Non conosciamo granché di noi stessi. Non abbastanza per
avere qualche chances.
Sappiamo solo saltare sul filo, e scrutare l'onda di ritorno.
Anche di quel filo sappiamo poco, se non nulla.
Ci siamo trovati là sopra che il gioco era già partito.
Se non siamo caduti finora... è perché quel filo non ci vuole
a terra, ammesso che la fine di quella ipotetica caduta sia in un luogo simile.
Anche il filo fa parte del gioco. Senza le sue marionette, una
o entrambe, fine del gioco.
Cos'è quel filo? E dov'è? Solo in negativo, mentre annaspiamo
nel vuoto, ci rendiamo conto che ci danzavamo sopra, si fa per dire...
Fa qualche differenza saperlo?
Forse no, ma se è un filo può averne le proprietà, come
per altri tipi di fili.
Resistenza per quelli da pesca o da cucito.
Adesività, minimo spessore e ancora resistenza per quelli del
ragno.
Capacità di riportarsi sull'argomento, per quello del
discorso.
Oppure di tornare al punto di partenza, per quelli d'Arianna.
Altri permettono di trasportare le parole o la corrente
elettrica.
Il filo di cui parliamo ha un po' di tutte queste qualità,
quella che ci interessa è che trasporta energia. Quella elettrica, se non viene
consumata in qualche modo produce un calore che si intensifica sino alla
fusione del filo (cortocircuito).
L'energia messa da entrambi, senza più attendere che le
oscillazioni si propaghino ed esauriscano all'altro capo lo farà prima o poi
cedere.
In queste condizioni la caduta è solo questione di tempo,
potendolo si può solo staccare la propria spina e rimanere perlomeno in
equilibrio, per quanto instabile.
Quanto possa durare e cosa accadrà in seguito non lo sa
nessuno.
Una persona che conobbi morì per scansare un gatto con
l'auto. Sbatté la tempia sulla portiera e morì, sul colpo. Per un milione di
gatti investiti una forza ha reclamato la vita di un uomo.
Un destino terribile. O la lotteria, stavolta dalla parte dei
gatti, per riequilibrare.
Nonostante tutti i nostri preparativi non saremo mai pronti
al nostro destino.
10° capitolo: velocità della luce e altre velocità
Velocità dell'informazione
Nel paese il giornale dall'Italia arriva nel pomeriggio
inoltrato.
Mario deve attendere quel momento per conoscere quanto
accaduto, posto che abbia deciso di acquistarlo anche quel giorno e non uno sì
e uno no, come usa fare.
Con una televisione o un collegamento internet sarebbe
possibile aumentare la velocità dell'informazione, ma a quale scopo?
Se non è una questione vitale fa qualche differenza tenersi
aggiornati con un giorno di ritardo? Sarebbe interessante, leggendo un
giornale, evidenziare le notizie che realmente incidono sul corso della nostra
vita dopo averle lette. Dubito siano molte. E allora perché è diventata
un'abitudine e per alcuni un'ossessione informarsi quasi in tempo reale? Per
rimarcare sempre più la distanza con i tempi passati quando le notizie
viaggiavano alla velocità dei cavalli, nel caso migliore?
Per quanto possiate disporre delle fonti più aggiornate ci
sarà sempre una distanza temporale tra voi e i fatti, non potete leggere tutto,
e quando lo leggete è già accaduto!
Oggi ho speso tre euro solo per rispondere venti secondi col
telefonino.
Questo spiega il perché della coda all'unico telefono
pubblico.
Con i telefonini, altra grande invenzione, è stato quasi
annullato il tempo dell'attesa, ma l'avidità di chi detiene una delle fonti di
guadagno attualmente più remunerative, riesce a far accettare che vi sia
nuovamente un tempo tra voi e la
comunicazione.
La maggior parte delle lettere viaggia per via elettronica,
scritte e spedite senza neanche darsi il tempo, recandosi alle scatole rosse – buche
delle lettere, che bel nome! Dà quasi l'impressione che infilandola là dentro
compaia dall'altra parte del mondo – di rimuginarci sopra.
Non so se capiti anche a qualcuno di voi ma ogni volta che mi
appresto a lasciar scivolare il plico nella fessura esito un secondo.
Rallento. Anche prima di inviare una mail
mi fermo un istante. Significa qualcosa?
Velocità del suono.
Vi racconto un episodio che riguarda mia nonna paterna e mio
zio, sperando vi faccia sorridere come ho fatto io, presente quando successe.
A quel tempo mia nonna era molto avanti negli anni ma alcune
cose continuava a farle con costanza: leggere romanzi gialli, ascoltare alla
radio commedie e recite e sorseggiare un noto amaro al termine di ogni pasto.
Dimenticavo, soleva anche tabaccare, aspirando col
naso la polvere della pianta omonima.
Credo che ai nostri giorni non lo faccia più nessuno,
perlomeno con quel tipo di polvere...
Viveva all'ultimo piano di un grande e vecchio stabile, una
pena le tre rampe di scale, ma non si lamentava. Là in alto c'era uno spazioso
atrio comune che dava su numerose stanze.
Lei aveva un minuscolo cucinino da una parte, il bagno
dall'altra e la sala da pranzo comunicante con la sua camera in un'altra
ancora. Mio zio disponeva di una propria e altre tre famiglie, di uno o più
componenti, si dividevano le restanti.
Per mangiare attraversavano con le pietanze l'atrio,
riportando nel cucinino dove si stava solo in piedi i piatti da lavare. Il
frigorifero era una vaschetta d'acqua sulla finestrina rivolta a nord, dove
galleggiava in un sacchetto il burro e talvolta altro. Il trucco era di
cambiare l'acqua durante il giorno, a seconda della temperatura esterna.
Sembrerà impossibile ma funzionava, ovviamente per un tempo limitato.
Non si gettava via nulla, adeguando il menù ai tempi di
conservazione.
Dopo questa illustrazione per darvi conto del traffico che
c'era in quell'atrio – non dimenticate le altre famiglie, anch'esse con locali
separati! – veniamo all'aneddoto.
«Proprio non capisco, cos'è questa velocità del
suono?» - chiese mia nonna.
Io, pur frequentando le medie, non sarei riuscito a spiegarlo
in modo per lei comprensibile.
Ci pensò mio zio: «Per esempio... ti scappa una scorreggetta
e corri in bagno così in fretta da sentire là il rumore che hai fatto
qui!» - il riso di lei confermò che
aveva capito!
Velocità della luce.
Se c'è qualcosa di tanto usuale quanto sconosciuto è la luce.
Senza ripercorrere la storia dell'uomo tutti sanno come
dominare il fuoco abbia impresso una svolta nella sua evoluzione. Ma prima di
poter disporre di apparati e sistemi indipendenti da esso per illuminare la
tenebra, dovette attendere la scoperta dell'energia elettrica e quindi
l'invenzione della lampadina di Edison. Tempi non molto lontani dai nostri.
Da sempre l'uomo si è interrogato sulla natura della luce,
attribuendo a essa un posto di primo piano in ogni campo: religioso, artistico,
tecnico ecc..
Nel tempo quello scientifico se n'è impadronito quasi del
tutto, elaborando via via teorie per spiegarne l'origine e il comportamento,
riuscendo ad applicarle per fini pratici.
Impadronirsi dei segreti della luce, per la fisica
soprattutto, significa disporre di una chiave per aprire una porta sui misteri
e le leggi dell'universo.
Di essa si conosce la velocità, circa 300.000 km al secondo,
considerata costante.
Ovviamente nel vuoto, perché se deve attraversare dei
materiali diminuisce, e in certi casi – prismi e reticoli – addirittura si scinde
nei suoi costituenti che il nostro occhio percepisce come colori.
La fisica dice che la luce ha una natura duale, figuratevi
un'onda sull'acqua o una minuscola particella che si sposta nello spazio.
Significa che può essere l'una o l'altra, o meglio, che potete interpretarne
proprietà ed effetti usando la teoria più adatta, corpuscolare od ondulatoria.
Per i casi difficili ne esistono altre due.
Pochi non hanno mai sentito quest'altra parola, relatività,
e la associano correttamente alla celebre teoria di Einstein. Uno dei risultati
più impressionanti di tale conoscenza è la bomba atomica.
Nella famosa formula è l'enorme velocità della luce,
perdonate l'inappropriata semplificazione, che allo scoppio trasforma la massa
in energia. Da poca materia si sprigiona un'incredibile energia, purtroppo
"sporca", ottenendosi al contempo atomi radioattivi tenacemente
resistenti che avvelenano l'aria, l'acqua e la terra.
C'è un dogma sulla luce, che la sua velocità non possa essere
superata.
Ma come tutti i dogmi anche questo deve confrontarsi con
l'avanzare della conoscenza.
Ad esempio, sino al 1930 si cercò conferma dell'esistenza di
un etere, intendendo che laddove non rileviamo nulla pure vi è qualcosa
che permea il tessuto della creazione. Invisibile e insondabile, da cui il
nome, etere, che richiama la più fine essenza di un profumo. Poi si lasciò
perdere.
I corsi e ricorsi della scienza si susseguono come quelli
della storia, oggi rispolverando il concetto di etere – ovviamente adattato
alle nuove conoscenze – per dirci che non esiste il vuoto, nemmeno nello spazio
tra pianeti o galassie. Non solo perché la materia e l'energia, di cui pare
certo non conosciamo tutte le forme, pervadono ogni spazio. Ma perché anche in
quello più remoto avviene una continua danza tra particelle ed energie. Per
quanto incredibile il vuoto è pieno di qualcosa, energie virtuali da cui
si originano particelle virtuali e non... ma l'argomento sconfina con la
possibilità di comprenderlo figurativamente e a noi basta arrivare a questo
punto.
Al tempo in cui Einstein formulava la sua teoria, fondata sul
principio di Lorentz che: "Lo
spazio e il tempo devono essere misurati in modo differente a seconda che il
sistema sia in moto o a riposo",
molti credevano nell'esistenza dell'etere. Poi lo scienziato si accorse
che quel principio non aveva bisogno dell'etere per conservare la propria
validità e contribuì al suo pensionamento aggiungendo che: “ Qualcosa che
non possiamo osservare è come se non esistesse, anzi non esiste proprio..! ”
Naturalmente in ambito scientifico, ma penso comprendiate le
implicazioni.
Einstein immaginava un vuoto assoluto dove la luce raggiunge
la sua strabiliante velocità.
Ma se invece essa come ogni altra cosa o energia non può
esimersi dall'attraversare un etere, in qualche modo interagirebbe con
esso.
Dove può portare tutto ciò? Forse a dover rivedere anche quel
dogma, per spiegare effetti oggi sfruttati in diverse apparecchiature tecniche,
ad esempio particelle che si tengono "informate" e scompaiono da una
parte per riapparire dove non potrebbero...
Dopo questa premessa il raccontino che segue, elaborato da
fatti realmente accaduti, potrebbe apparirvi in una luce differente.
L'isola maggiore era circondata, come i satelliti un
pianeta, da diverse terre emergenti, scogli e secche, che si scorgevano per una
gran distanza. Su alcune cresceva la vegetazione, bassi arbusti ma anche
qualche albero; ben poca cosa paragonata a quella rigogliosa che ricopriva la
grande isola, iniziando già pochi metri dalle rive e proseguendo sui pendii
fino alla sommità.
Non grandi altezze, nemmeno un centinaio di metri,
sufficienti tuttavia a formare nelle terre più alte e distanti dal mare un
clima differente.
La popolazione viveva principalmente di pesca, modesti
allevamenti di animali da cortile e coltivazioni di ortaggi, dove la fertilità
della terra e la poca acqua dolce disponibile lo permetteva.
Fortunatamente una specie di alberi produceva frutti
simili a grosse pagnotte completando con i carboidrati la piramide alimentare
del luogo. Le temperature non scendevano mai abbastanza e richiedevano poche
volte un altro indumento sopra la solita camicia. Una sorta di paradiso dove i
soli pericoli venivano dall'elemento che ne permetteva la vita, l'acqua del
mare.
Quando la stagione cambiava il vento la mescolava a quella
che cadeva copiosa dal cielo, e per un paio di settimane i contorni delle cose
già a qualche metro di distanza sfumavano.
Essendo un fenomeno ricorrente la gente si preparava per
tempo limitando i danni, anche se gli dei degli elementi pretendevano il loro
tributo in vite umane.
A qualcosa d'altro però non c'era quasi verso di scampare:
non era periodico, poteva accadere due volte di seguito o ripresentarsi dopo un
lungo tempo, anche cent'anni. Non si può veramente prepararsi a un'eventualità
del genere, così quando le onde – a volte alte e altre smisurate – si riversano
sull'isola anche in calme e assolate giornate, chi non riesce a trovare per
tempo un luogo elevato e resistente viene travolto e perisce.
È abitudine di quelle genti osservare frequentemente le
altre isolette di fronte alla loro, le prime a essere investite dai muri
d'acqua.
Come accadde quel giorno.
Stavolta l'onda era smisurata e la sua energia divelse la
maggior parte degli alberi e delle case.
Ma almeno qualcuno vedendo il riflesso luminoso di
quell'acqua sovrapporsi a dove prima erano terre e alberi poté salvarsi,
salendo sulla prima pianta, costruzione o roccia.
Chi udì le loro urla non ebbe neppure quei pochi attimi
per tentare alcunché.
Dopo la devastazione gli scampati abbandonarono la costa
ormai inabitabile per risalire le pendici, dove seguendo la tradizione avevano
edificato rifugi e stipato viveri.
Gli animali selvaggi dell'isola erano già là, da ore se
non più, salvandosi per la quasi totalità.
Cosa li avvisò prima ancora di aver visto la luce
dell'onda non ha una spiegazione.
C'era anche un uomo là sopra, disse che in un sogno...
Velocità biologica.
Più avanti leggerete Velocità della vita, dove
l'accento è posto sulla psiche e coscienza dell'uomo, mentre qui parliamo della
sua struttura organica, del corpo.
Man mano che se ne approfondisce la conoscenza aumenta la
meraviglia per l'incredibile complessità che vi è racchiusa. Sessantamila miliardi
di cellule specializzate in organi e funzioni stupefacenti. Si ritiene che la
fonte di quell'intelligenza capace di una tal cosa sia da ricercare all'interno
delle cellule, in quella molecola a forma d'elica che racchiude tutte le
informazioni per eseguire il progetto della vita. Pur avendo decifrato la
struttura chimica solo del 5% del DNA,
quello codificante le proteine di cui si conoscono le funzioni, del
restante 95% , infelicemente chiamato DNA spazzatura, se ne sa ancora ben poco.
I più benevoli nei suoi confronti credono che permetta a quello nobile di
funzionare; altri lo considerano, bontà loro non del tutto, come un relitto di
origine virale dovuto all'evoluzione. Non pare molto, e anche questa
conoscenza subisce continui rimaneggiamenti e aggiustamenti dovuti a ulteriori
studi.
Beninteso, non più di 50 anni fa sarebbe stata considerata
pura fantascienza, va reso merito alla biologia di aver raggiunto tali
traguardi. Ma anch'essa prima o poi si troverà di fronte a qualche importante
scoperta che la obbligherà a rivedere i suoi dogmi, la sua interpretazione
delle cose.
In un tempo non troppo distante veniva affermato che dell'universo e le sue leggi se
ne conosceva la gran parte (addirittura!) e che non mancava poi molto a
completare il quadro.
Vero che la maggior parte degli addetti ai lavori non
condivideva un tale ottimismo, una vera mania dell'uomo a farsi prendere la
mano e lanciarsi in dichiarazioni iperboliche solo perché ha padroneggiato una
tecnica o individuato una legge dietro a qualche fenomeno.
Einstein ha ridimensionato la portata delle scoperte di
Newton, non la sua genialità e grandezza, che va collocata al suo tempo. Ma
anche le teorie di chi è considerato una delle più grandi menti dell'umanità
oggi scricchiolano a causa di nuove scoperte, esperimenti e ipotesi.
Per dire che più se ne sa più c'è da conoscere.
Se non proprio umiltà almeno sarebbe consigliabile un po' di
prudenza.
La plastica fu una scoperta italiana, del nobel Natta che
rivoluzionò la vita quotidiana.
Oggi tale materiale ridotto in minuscole particelle sta
avvelenando gli oceani e la vita dei suoi abitanti; intasando discariche e,
quando bruciato, liberando un terribile veleno, la diossina, che ricaduto al
suolo viene assimilato dai vegetali. Intossicando gli animali che li mangiano e
da questi all'uomo, in cima alla catena alimentare. Non è un discorso
ambientalista o di parte, è la storia dell'uomo, un essere che ha fretta e
disdegna la precauzione; si potrebbe parlare di centinaia di problemi dovuti al
medesimo atteggiamento che porta ad assumersi gravi rischi in cambio di un
vantaggio immediato.
Perché questa fretta? Perché la mente umana è relativamente
giovane e non ha fatto propri i ritmi biologici che governano i fenomeni
vitali. Pure ne conosce abbastanza.
Sa che le cellule del suo corpo si possono rinnovare
all'incirca una cinquantina di volte ‒ il numero di Hayflick, che indica una carica biologica corrispondente a
una settantina d'anni ‒ esaurite le
quali ci ritroviamo con cicatrici al posto di nuove cellule.
I battiti del cuore di un essere vivente, dall'insetto
all'elefante, sono legati alle dimensioni, aumentando quando diminuiscono e
viceversa. In un certo senso i battiti sono contati, forse gli stessi per tutti
gli esseri viventi. La vita biologica – degli esseri pluricellulari e sessuati
a cui apparteniamo – ha all'interno un contatore, collegato a un interruttore
che toglierà la corrente.
Per quanto l'uomo tenterà l'impossibile per metterci mano
molti non credono che ci riuscirà.
Siamo quasi sette miliardi sul pianeta, se ci mettiamo uno
sopra l'altro possiamo fare 170 volte il giro del mondo, e otto volte andata e
ritorno dalla terra alla luna.
Dedicando un solo secondo per guardare la foto di ogni essere
umano occorrerebbero più di due secoli per terminare.
Il peso di tutti noi corrisponde a un asteroide roccioso di
un chilometro di diametro; sembra poco ma se impattasse la terra segnerebbe la
fine dell'umanità a seguito di immani sconvolgimenti.
Qualcuno ha calcolato anche il calore emanato costantemente
da sette miliardi di radiatori a 37 gradi quali siamo, un notevole contributo
al surriscaldamento del pianeta.
I numeri evidenziano quello che è sotto gli occhi di tutti,
siamo tanti, e le risorse del pianeta non sono infinite. Man mano diminuiscono
e chi un giorno ne verrà escluso probabilmente reagirà al privilegio di pochi,
tanto più se questi ultimi avranno anche trovato il modo di allungarsi l'arco
della propria vita.
Il ritmo biologico dell'uomo è collegato a quello di ogni
altro essere sul pianeta, compresi quelli più semplici: batteri, funghi e
virus. Per questo non riuscirà nel suo sogno di immortalità, non può separare completamente
la sua vita dal contesto dove si è sviluppata. E quel contesto, diciamo
l'ambiente o l'ecosistema, quando è il caso interviene per ripristinare
l'equilibrio.
Tuttavia pur avendo infiniti modi potrebbe anche non far
nulla, attendendo che l'uomo risolva da sé il problema del suo tremendo impatto
sul pianeta.
Purtroppo sono in tanti a ritenerlo incapace di onorare il
dono dell'intelligenza.
Nel merito della lunghezza della vita umana, se consideriamo
attendibile l'età raggiunta dai patriarchi biblici – da 900 anni a scendere –
sembra che in quei lontani tempi sia accaduto qualcosa che progressivamente ne
ha ridotto la durata. La visione religiosa imputa ciò alla distanza crescente
con la Divinità. Per altri con la Natura.
Certo che diminuire l'arco temporale diminuisce la velocità
di incremento della popolazione umana; se l'uomo vivesse centinaia d'anni oggi
saremmo il doppio se non dieci volte tanto.
Come spesso accade le parole che ci giungono da un passato
lontano possono essere state modificate, forse più che crescete e
moltiplicatevi andava inteso crescete e perpetuatevi.
Magari lasciando la stessa opportunità anche ai nostri
compagni di viaggio, animali e piante.
Velocità della vita.
È sera, sono uscito per telefonare e al ritorno incontro un
vecchio vestito con una semplice tuta di cotone blu, alquanto usata. Malfermo e
visibilmente sofferente cammina lentamente appoggiandosi a un bastone. Forse
non è proprio malato e gli acciacchi sono dovuti all'età, che ne ha scavato il
viso e dimagrito all'essenziale il corpo. L'ho incrociato diverse volte, mi
ricorda mio padre che non c'è più e stasera finalmente lo saluto, senza
preoccuparmi di non conoscerlo. Per un momento rimane sorpreso, ma ricambia con
compostezza.
Mi fa tornare in mente l'ultima sera che ho parlato con mio
padre.
Era malato seriamente ma ancora in grado di muoversi, nella
casa dove viveva con mio fratello. Sempre un pezzo d'uomo, pur se negli ultimi
tempi perse peso e cedette altezza, capace di sopportare dolori tremendi col
minimo aiuto farmacologico, non volendo sprofondare nel torpore.
È stato difficile per me assorbire i lati diciamo difficili
del suo carattere, se ci sono riuscito è perché lui l'ha fatto dalla sua
parte.
Ci fu un momento in cui si rese conto di come stava gettando
via la sua vita e su due piedi abbandonò le abitudini distruttive che lo
avevano accompagnato da sempre, sulle quali poggiava la sua personalità. Dove
avesse trovato una tale forza e determinazione non l'ho saputo, ma man mano che
procedeva in lui una sorta di purificazione comparivano aspetti inediti del suo
carattere, positivi. Quell'ultima sera ero nella sua stanza per misurarne la
finestra allo scopo di inserirvi una zanzariera, e avevo portato un tavolo
affinché potesse mangiare lì senza dover scendere le scale.
Per come riusciva a far fronte alla sua dolorosa condizione
mai avrei pensato che sarebbe stata l'ultima volta che l'avrei sentito parlare.
Le ultime parole che mi disse, guardandomi dopo che avevo finito di fare
qualcosa per lui furono ... grazie di tutto... seguite dal mio nome.
Più o meno le stesse che aveva detto in precedenza all'altro
mio fratello che gli aveva lavato i piedi, cosa per lui ormai impossibile.
Parole che furono pronunciate con una gentilezza e una grazia che mai avevo
sentito prima e in seguito nella mia vita, da parte di nessuno.
Ogni cosa si fermò, dentro e fuori di me, lo stesso tempo fu
sopraffatto dalla vibrazione contenuta in quelle parole. Attonito e incredulo
dissi che avevo fatto ben poco e non capii al momento che era un commiato. La
mattina seguente una telefonata mi informò dell'evento.
Mio padre aveva una debolezza, se così si può dire,
rincorreva il sogno di una vincita in qualche gioco. Studiava numeri e
combinazioni ore e ore al giorno, il suo unico passatempo.
Quando gli pareva di aver individuato come pronosticare
quelli vincenti cercava di spiegarlo ai suoi figli, che gli credevano poco, non
avendo visto risultati tangibili.
Sin quasi alla fine dedicò il suo tempo a quel sogno, per la
sua soddisfazione e per lasciare un concreto aiuto alla famiglia, in suo
ricordo.
Non riuscendovi in quel modo chiese un anticipo sul suo spicchio
di paradiso per metterlo nelle ultime parole: “... grazie di tutto, figlio
mio.”
L'uomo con la tuta che ho salutato in quest'isola, come
milioni nelle sue condizioni e molti di noi un domani, porterà avanti la
propria vita facendo le solite cose. Pur dando l'impressione di procedere al
nostro modo si muove senza velocità, perché non c'è più il tempo al
denominatore.
Il tempo come noi l'intendiamo, il flusso dal passato al
futuro ha lasciato la presa, inservibile.
Non succede a tutti che il cervello scarichi una zavorra
divenuta un peso, alleggerendo la mongolfiera per l'ultima ascesa. Solo in
questo modo si può spiegare la capacità di far fronte ai mutamenti nel fisico e
la fine del confronto fra la propria condizione e quella normale, dove
il tempo continua ad agire.
La vita in un certo senso si semplifica in un'unica immagine
con cui avere a che fare.
Passato e futuro diventano come le figurine da collezione,
appartengono alla persona ma lei non appartiene più a loro.
Non ho nessuna ambizione di spiegare qualcosa che non
conosco, tanto meno la vita e la morte. Della prima non se ne sa mai abbastanza
e della seconda non se ne saprà mai nulla.
Quella che scambiamo per conoscenza sono solo immagini e
sensazioni raccolte per strada, alcune volte toccate a noi e più spesso ad
altri. Le mettiamo in una cartellina con le parole che da millenni si
riferiscono all'argomento, quelle che ci sono più congeniali.
Man mano la battaglia navale della vita affonda le navi che
si trovano nel mare accanto a noi, alcune grandi e solide. Il mare ci porta
l'onda dell'evento, capace di scuoterci e per alcuni di affondare a sua volta.
Le onde lontane ci giungono smorzate, non è questione di insensibilità. Quando
è passata, la nostra cartellina si è ingrossata, ci abbiamo messo dentro il
resoconto dell'ultima perdita che ha liberato un po' di spazio nel mare,
disponibile per altre giovani navi.
Ogni tanto apriamo la cartellina e studiamo il contenuto, con
il proposito di rintuzzare la sensazione di vulnerabilità che la battaglia ci
porta.
Sappiamo bene che toccherà a tutti, comprendiamo anche che
non ci sarebbero né risorse né spazio se le navi non venissero riciclate.
Ma quello che cerchiamo davvero è se non capire almeno
scorgere il motivo della battaglia, il senso del gioco, se è un gioco.
La cartellina è piena di fogli di spiegazioni, esperienze, stratagemmi e
consigli. Ce n'è in abbondanza e volendo ne scegliamo uno o richiudiamo senza
prendere nulla.
Non eravamo presenti (coscienti) al varo della nostra nave,
non ci saremo al termine.
Questo è l'unico fatto. Tutto quello che si può dire
non risalirà a prima e non arriverà a dopo.
Il senso della vita sta lì in mezzo: dove abbiamo navigato,
dove ci siamo fermati a far provviste e come abbiamo condotto la nostra nave.
Se rimane del tempo prima di affondare si può scegliere di
aprire la cartellina delle spiegazioni, un po' di conforto è del tutto lecito,
siamo solo uomini.
Oppure di aprire quell'altra cartellina, il diario di
bordo, dov'è registrata la cronaca del viaggio e rileggerlo del tutto o in
parte.
Prima della conclusione qualcuno troverà anche la forza di
ordinare ai ricordi, a tutte le figurine della sua vita di abbandonare la nave.
Un capitano in quel momento ha in essa l'unico conforto,
sceglierà il luogo dove sedersi e scriverà le ultime parole sul diario: “Oggi
nell'anno... la nave sta affondando.”
Nessun altro farà mai un viaggio uguale.
Ho visto persone terminare la propria vita in questo modo e
so di molte altre vestite solo del coraggio di affrontare il proprio destino.
Pensavo che avrei scritto qualcuna di queste storie, seppur a
malincuore vi ho rinunciato senza spiegarmi del tutto il motivo, forse perché
tutti ne conosciamo di simili, non servono tanti esempi.
Per quanto diverse ognuna avrebbe condotto allo stesso punto.
Ma posso raccontarvi qualcosa oltre quel punto, vista
dalla nostra parte.
Riguarda sempre mio padre, che raggiunsi in fretta la mattina
dell'evento.
Era caduto a terra dove morì in un minuto, mio fratello
maggiore riuscì non so come a rimetterlo nel letto. Osservai i suoi occhi
ancora aperti, guardavano davanti a sé con un'espressione stupita e
meravigliata. Limpidi e senza la minima traccia delle ultime terribili
sofferenze.
A breve sarebbe giunta mia madre e l'altro mio fratello,
l'emozione avrebbe preso il sopravvento. Ma nel tempo che passai da solo con
lui non avevo pensieri né emozioni, più che sconcertato da quell'espressione di
stupore nel suo volto, come se avesse visto qualcosa di fantastico.
Pur vecchio sembrava un bambino davanti a un regalo.
Questo il fatto, cosa abbia visto non lo saprò mai. So solo
che non scorderò mai quell'espressione.
Dopo l'uomo con la tuta passa un gruppetto di giovani, non
c'è molta luce e forse per quello una ragazza tra loro mi osserva quei due
secondi in più che si avvertono subito.
Mi sfugge il motivo dell'interesse, ma per associazione ecco
farsi avanti un'altra velocità, quella straordinariamente senza tempo del
ricordo... mi rivedo, terminate le scuole, in vacanza in un ostello all'estero,
dotato di un locale con juke-box.
Come tutti i ragazzi anch'io mi dedicavo a fantasticare sulle
ragazze più belle. Ce n'era una alta, bionda e bellissima. Ci feci anche più di
qualche parola a cui ricambiò, ma in due e due quattro arrivò da chissà dove un
tipo determinato che trovò subito il modo di diventarle simpatico.
Ci rimasi un po' male ma non credo che avrei potuto
competere, quello che non mi tornava era non aver capito che la bellezza la
vedono gli altri. Lei era semplicemente giovane con le aspettative dei giovani.
Mentre stavo lì a rimuginare ascoltando le canzoni, un'altra ragazza bionda di
statura normale e di un tipo di bellezza diversa ogni tanto mi guardava, non
partecipando come me alla festa. Quel giorno in gruppo avevamo fatto una visita
alla città e non le sfuggì la mia attrazione per la regina.
La disillusione precedente mi consigliò di starmene
tranquillo, cosa che feci.
Il mattino dopo mentre stavo partendo la vedo arrivare con
una macchina fotografica.
Mi venne vicino e mi fece una foto, salutandomi con un
sorriso.
Non la considerai un'occasione persa, se non fossi partito
forse poteva cambiare il corso della mia vacanza, chissà per quello della vita.
Ma ero già sul nastro trasportatore.
Mi auguro che quella dolce e sensibile ragazza abbia trovato
quanto gli corrisponda.
Se avrà avuto dei figli potrebbe aver mostrato loro l'album
di ricordi con le sue foto, raccontando la piccola storia della mia. Chissà,
magari la ragazza di stasera poteva essere la nipote, dotata di un'ottima
memoria visiva...
«... sai nonna, il ragazzo della tua foto di
quell'estate... nell'isola dove sono stata ho visto un uomo che me l'ha
ricordato, pensi sia possibile?» -
«Tutto è possibile, finché non siamo certi che è impossibile. Ma anche in quel
caso vi è un mondo che ospita le possibilità non sviluppate, il mondo che
alimenta la fantasia dell'uomo e le sue speranze.»
Fine della velocità.
Sapevano che sarebbe arrivato, così non fu una sorpresa
sentire quel suono, una poderosa vibrazione come di un gong che solcò lo spazio
senza perdere nulla in intensità.
Attraversò a velocità infinita mondi, galassie e l'intero
universo. Come si produsse tutti lo sentirono e fecero quello che andava
fatto. Spensero la propria luce e si avviarono per incontrarsi.
Le stelle cessarono di brillare e ogni cosa finì. L'universo
non esisteva più.
Non ci volle molto, anzi proprio niente, perché la vibrazione
tolse di mezzo il tempo.
Perlomeno il tempo come l'intendono gli umani, per loro
invece il tempo era solo uno degli assi che reggevano la creazione. Senza
quello tutto si appiattì in un unico foglio a due dimensioni che si arrotolò su
se stesso e ritornò nelle mani del Progettista.
Loro erano i Principi cui furono affidati le stelle e i
mondi. Avevano carta bianca, potevano intervenire o meno, fare qualcosa come
nulla. Persino delegare, creando all'occasione chi doveva riceverla. Totale e
incondizionata libertà. Eccetto per una cosa, al termine avrebbero mostrato al
Progettista cosa ne cavarono da quel compito.
Era quello che si apprestavano a fare nel luogo senza tempo e
senza spazio in cui lo incontrarono.
Tutti aprirono il proprio libro e soffiandovi ridettero vita
(tempo) agli innumerevoli eventi che accaddero nel mondo assegnato. Ognuno
adesso poteva conoscere il lavoro degli altri.
Mondi che nacquero e restarono gassosi. Altri che
solidificarono e altri ancora su cui si svilupparono entità autonome,
immateriali come materiali. Che agivano apparentemente seguendo la propria
volontà, non percependo, se non pochi, che originava da un'altra volontà tanto
sottile da rimanere celata alle acerbe facoltà della loro mente grossolana.
Era una bella festa, come se un gran numero di amici, fatto
ognuno un viaggio fantastico, ne proiettasse il filmato realizzato. Non c'erano
invidie, tutti ritenevano il proprio quello migliore e d'altronde il padrone di
casa, il Progettista, dispensava egual apprezzamenti visibilmente compiaciuto.
Venne il turno del Principio della Terra di soffiare sul suo libro.
Quello che ne venne fuori lo conoscete, è la nostra storia,
molta miseria ma anche umanità e cose belle tra atrocità indescrivibili.
Certo che l'invenzione di quell'essere, l'uomo, fu una gran
trovata.
Tra le cose più apprezzate vi fu il suo senso dell'umorismo
che nessun altro Principio si azzardò a proporre nel suo mondo, per rispetto di
uno degli attributi del Progettista.
Il Principio della Terra osò e permise che le sue creature ne
disponessero in modesta quantità per compensare in piccola parte le sventure
occorse, più spesso procurate da loro stesse che dagli eventi esterni. A quelle
condizioni veniva rispettata la Legge dell'equilibrio e tutto era a posto.
La festa stava volgendo al termine, come le infinite volte
precedenti anche in questa si sarebbe scelta una singola immagine, da
appiccicare sulla cartellina del Progetto prima di riporlo e ripartire con uno
nuovo. Il più grande onore per un Principio.
Beh, pareva proprio che stavolta toccasse a quello della
Terra. Tutti si voltarono dalla sua parte quando il Progettista lo toccò con un
dito, dicendogli di scegliere un'immagine per la cartellina.
Qualcuno notò in quel Principio una parvenza dell'umorismo
che diede alle sue creature, ma non ci badò più di tanto, le cose stavano per
concludersi e tutti già si stavano chiedendo come sarebbe stato il prossimo
Progetto, quale compito avrebbero avuto. Sentivano in sé stessi crescere
l'energia creativa, una condizione stupenda.
Il Principio della Terra aprì una pagina e vi soffiò.
L'immagine prese vita e tutti videro...
“... delle piccole creature che si raggruppavano, tenendo
in mano dei rettangolini di spazio solido colorato. Erano bambini e la
vibrazione della loro voce indicava un alto stato d'energia vitale. Gioco,
questa era la parola che usavano per quanto stavano facendo. E cosa facevano?
Si mostravano e giocavano con quei rettangolini di carta – figurine – a volte
scambiandoseli.
Parevano proprio felici...”
Tutti compresero anche il significato di un'altra di quelle
parole che le creature usavano, metafora.
L'immagine scelta rispecchiava la loro situazione, in un
altro ordine di grandezza erano come quei bambini, a cui il Principio della
Terra ispirò quel gioco.
Non si erano mai domandati da dove venissero – per quel che
sentivano c'erano sempre stati – come potevano immaginare qualcosa di diverso
non esistendo neppure il tempo?
La risata (la risata! E quando mai l'avevano udita?) del
Progettista fu come il gong all'inizio della storia; tutti si girarono dalla
sua parte, stava per parlare...
«... e così finalmente uno di voi è andato oltre quel che
facciamo. Ha creato una specie per dirmi che se n'è accorto, e per dirlo a
tutti voi. Gli umani che avete visto usano una parola, evoluzione, non è un
termine appropriato per la nostra condizione ma dà l'indicazione che le cose
non rimangono sempre le stesse.
Qui non c'è il tempo ma la nostra Volontà. E la Volontà
può tutto.
Come gli uomini che quando si accorgono di essere dei
bambini non lo sono più anche voi ora siete oltre, potete fare da soli se lo
volete... che ne dite?» - la risposta fu un unico diniego.
«Beh, se le cose stanno così ne prendo atto, tuttavia da
adesso faremo diversamente.
Oltre alla
prerogativa dell'etichetta sul vecchio progetto, al Principio della
Terra delego anche il nuovo progetto!» - la meraviglia fu senza
pari! - «Tocca a te, dì quello che faranno!» - disse il Progettista.
«Non ci vorrà molto, riprenderemo in mano quello
precedente e riaccenderemo la luce, tutto qui.»
- fu la pronta risposta.
Increduli e attoniti i Principi si guardarono tra loro mentre
il Progettista rideva nuovamente!
Non si raccapezzavano più, anche se a molti l'idea di
rimettere mano al vecchio progetto piacque assai, avendo dovuto interrompere
eventi e situazioni che promettevano bene.
Altri provarono un certo imbarazzo... sotto sotto si erano
stufati di quello che ne avevano ricavato, meglio un nuovo foglio bianco e
prendersela con calma che dover dedicare ancora energie per migliorare un
disegno mal riuscito. Ma tant'è, quanto stava accadendo era più di un atto
creativo, addirittura una nuova direzione della creazione! L'energia che
portava una tale novità si espanse rapidamente, conferendo a tutti loro quella
qualità che pensavano fosse riservata al Progettista, l'umorismo. Con quella si
potevano affrontare tante situazioni critiche in molti mondi; non una panacea,
solo un aiuto, ma quando non rimane null'altro...
Qualcuno chiese se si poteva cancellare quel momento di buio
– quando si spense la luce – dalla memoria degli esseri che avevano creato. «Buona
domanda.» - disse il Progettista - «Ma
come sapete nulla deve andare perso, dovete creare le condizioni per cui quel
buio abbia logica, senso ed equilibrio... e sono sicuro che il Principio della
Terra ci ha già pensato, sentiamo come si comporterà nel suo mondo.»
«Sì, lo avevo immaginato. Le mie creature hanno paura del
buio, non c'è stato niente da fare, percepirono istintivamente che sarebbe
arrivato il momento finale. Pur se la fine della vita è la massima perdita,
sapere che almeno per un po' sarebbero rimasti nel ricordo di figli e amici spesso
bastava a dar loro il coraggio necessario per affrontarla. Ma la conclusione di
tutto - dello stesso universo - è oltre le possibilità della loro mente. Così
ho lavorato per produrre l'immagine del buio a cui non ci si può opporre, per
rafforzare le loro menti in vista dell'evento.
Le ho chiamate eclissi... »
...........................................
........................................
12° capitolo: il dono di Zeca
A circa due miglia di distanza giusto di fronte alla baia
dove risiedo c'è un'isoletta, Zeca.
Lunga cinque chilometri e mezzo, larga poco più di uno si
eleva nel punto più alto per alcune decine di metri. Completamente rocciosa,
senz'acqua, è tuttavia ricoperta dal verde della macchia, un miracolo a cui ci
si abitua troppo presto, dimenticando come sia difficile ripristinarla una
volta che sia persa, come ricordano le innumerevoli isole e isolette brulle
dell'arcipelago delle Incoronate, più a sud.
Vent'anni addietro la raggiunsi con un piccolo gommone, per
un bagno e una breve sosta.
Da quella volta chissà perché mi è rimasto il desiderio di tornarci.
Vedendola dalla baia, così a portata di mano, mi sono chiesto
come poterci arrivare.
Non ho più l'interesse di un tempo per barche o gommoni a
motore; in quanto a quelle a vela anche le più piccole sono di troppo ingombro
per togliersi uno sfizio. Potrei semplicemente noleggiare un'imbarcazione, o
farmici portare, ma nessuna di queste possibilità è mai proceduta dal cervello
ideativo a quello realizzativo, frapponendosi tra i due quell'altro, quello
misterioso – il cervello del momento giusto – sono sicuro che
capite senza dover fare esempi. A chi non è capitato di essere lì lì per fare
quella cosa ma poi per un motivo o l'altro non se n'è fatto nulla?
Magari con qualche rimpianto avete accettato il fatto che non era il momento.
L'anno scorso avevo acquistato un kayak gonfiabile. Non
troppo costoso è tuttavia ben costruito: tre scomparti separati per le camere
d'aria protette da uno spesso tessuto sintetico e una chiglia gommata. Fiancate
alte, prua e poppa a punta; ottimi sedili e attacchi quanti se ne vuole, dà la
giusta sensazione di sicurezza, necessaria quando si va per mare.
Complimenti alla ditta francese, anche se viene fatto in Cina
come quasi tutto al giorno d'oggi.
L'isoletta l'avevo messa in programma già l'anno prima, dopo
aver fatto pratica e allenamento anche con mare mosso e vento leggero. Ma non
se n'è fatto niente. Non serve elencarne i motivi, perché avvertivo che non era
propriamente a causa loro.
Se l'avessi raggiunta mi sarei tolto un desiderio, ma sarei
ripartito a mani vuote.
Capirete perché, continuando a leggere.
19 agosto 2010.
Mi sono alzato con calma, forse troppa per andare in kayak,
in quanto è meglio tornare prima che il sole vi abbia cucinato a dovere. Nel
mio caso, adesso che la pelle – quella non protetta da camicia e cappellaccio
di paglia – tollera meglio il sole, non troppo oltre l'ora di pranzo.
Dopo colazione mi sono sentito in forze, potevo andare,
confortato dalle buone previsioni meteo. Non fatene a meno, anche per un solo
miglio e a maggior ragione quanto più piccola è l'imbarcazione. Non è un
discorso di distanza o di profondità, basta poco là in mezzo a respirar acqua
invece che aria, se il tempo cambia.
Inizialmente non era quella la meta, che avevo programmato
per il giorno seguente. Volevo prima fare un altro allenamento sulla stessa
distanza, però navigando sotto costa, sul sicuro.
Per uscire a dritta da questa splendida baia, dovete superare
un promontorio roccioso che protegge bene dall'onda entrante.
Dopo quello il mare risente di turbolenze e venti
consistenti, e là navigano imbarcazioni grandi e veloci: conviene sempre
dubitare della vista e del comportamento dei capitani al timone.
Al di là delle precedenze, per mare dovete mettere in conto
l'obbligo di cavarvela da soli: l'onda di una grossa barca che procede come un
siluro e non corregge la sua rotta in vista della vostra piccola imbarcazione
potrebbe anche rovesciarvi. Dovevate pensarci prima, altra rotta o altra barca.
O forse serviva un'altra esperienza, che voi non avevate.
Comunque si impara anche così.
E sono le lezioni che non dimenticherete. Quindi valutate
bene e nel caso rinunciate.
Nel mio mi sentivo in regola, e poi mi sarei tenuto sotto costa, risalendola sulla destra.
Queste erano le mie intenzioni, ma una volta fuori dalla baia
mi è tornata in mente l'immagine del sole splendente nelle previsioni per oggi
e coperto da una nuvoletta per quelle dell'indomani. Niente di importante, ma
se il tempo non fosse stato più che convincente avrei nuovamente rinunciato.
Compreso questo disponevo di soli altri tre giorni, era
adesso il momento giusto.
Non è una cosa che si decide da soli.
L'isolotto davanti a me mi aveva mandato il suo invito un
attimo prima di virare.
Non ho dovuto dare un colpo di pagaia in più per andar
dritto.
Non c'era troppa onda e mi sono fermato un paio di volte a lasciar acqua (si fa per dire) a imbarcazioni che ne sollevavano di ben più alte. Meglio star distanti e aspettare, c'è tempo.
Ho impiegato un'ora e mezzo. Altri più allenati e con un
kayak rigido lo farebbero in metà tempo, però senza guardare quella meta con
gli occhi di chi l'ha desiderata per anni.
Per loro sarebbe stato un punto d'arrivo, dove forse non si
sarebbero fermati neppure per bere con i piedi per terra, potendolo fare a
bordo.
Comunque sia ci sono arrivato, cercando e trovando il posto giusto per mettere a terra l'imbarcazione – quale comodità non dover ormeggiare con cime e ancore! – sopra un cumulo di morbida poseidonia seccata. Proprio sulla punta nord dell'isoletta, dove credo nessuno attracchi a causa del bassissimo fondale che per una lunghezza di decine di metri arriva ad appena un paio di profondità. Un posto riservato a chi ci arriva con un kayak. Come me, appunto.
Se fossi io a leggere mi attenderei a questo punto una
descrizione del luogo.
Non trattandosi di un'avventura o di un reportage
naturalistico, bensì del racconto di un signore che raggiunge un isolotto in
tutta tranquillità remando per un tempo limitato, non sarei molto propenso a
sopportarne l'enfasi nell'evidenziare questo o quel particolare, non diverso da
quelli che trovereste in posti simili.
Chi scrive deve darmi un motivo, anticiparmi qualcosa, per richiedere la mia attenzione, inducendomi altrimenti in uno svogliato girar di pagina in attesa di qualcosa di meno dozzinale.
Il tema ricorrente del libro è l'ispirazione e il modo
in cui si manifesta, inducendo a prestare attenzione a quanto si vede,
addirittura traducendo in parole le scene osservate.
Sì da avere l'impressione che non siate proprio voi a dar
voce a quel ventriloquo che parla nella vostra testa. Cosa direbbe un artista
raggiunto dal suo tocco che all'improvviso vede aprirsi davanti a sé la strada
per esprimersi? Io direi che è una manna dal cielo e ringraziando mi
metterei all'opera, contento di percorrerla quella strada.
Non avevo neppure lontanamente immaginato che mi avrebbe condotto alla fonte...
Passeggiare dopo il tempo passato a remare, oltre a far
muovere le gambe rimaste inattive cambia la prospettiva, alzandola della mia
statura.
Aumenta la distanza degli occhi dalla superficie, sia essa
mare o terra, e i particolari sfumano a favore dell'allargamento della visione.
Guardando da distesi sarebbe l'inverso.
Fin dai primi anni di vita ci abituiamo a questa condizione.
Poi un giorno indossiamo una maschera e nuotiamo.
Un mondo alla rovescia. Da distesi nell'acqua osserviamo in
distanza; in piedi, immergendoci in verticale, i particolari. Il motivo di
questa considerazione è per evidenziare che un'abitudine radicata, in ogni
campo, può farsi da parte e lasciare il posto a qualcos'altro, almeno per un
po'.
C'è sempre una possibilità. Che una normale passeggiata su
una spiaggia irta di scogli e resa rovente dal sole riveli la bellezza della
fioritura di migliaia di fiori gialli di papavero cornuto (glauncium flavum,
secondo alcuni da Glauco figlio di Nettuno innamorato della ninfa Scilla, con
ciò spiegandone la presenza sulle spiagge). E l'armonia delle forme
levigate di alberi e rami spiaggiati dalle mareggiate, a cui sole e salsedine
hanno conferito una delicata e uniforme colorazione grigia.
Tra tanta esposizione non c'è che l'imbarazzo della scelta.
Non costando che la fatica di prenderlo ne scelgo uno lungo più di un metro per
dieci centimetri di spessore, abbastanza pesante.
Anche se non è legno di ginepro, il migliore per compattezza, la bellezza della forma mi convince a portarlo con me sperando di individuare il posto giusto dove metterlo una volta a casa, anche se temo non sarà una faccenda veloce, come le orecchie di mare mi hanno insegnato.
Ritornando sui miei passi incontro disseminati dappertutto
gli escrementi secchi delle capre lasciate libere, a cibarsi di quanto trovano
e bere acqua salata. C'è un animale più resistente?
Non ricordo quante passeggiate ho fatto nella vita in tanti
posti diversi ma questa la ricorderò sempre. Non per l'eccezionalità, la
bellezza di quanto ho visto – tutti i posti hanno qualcosa di bello – ma per la diversa disposizione a osservare
che agisce dietro i miei occhi.
Una sorta di presenza che satura del tutto lo spazio mentale
profondendovi parole a getto continuo, facendomi afferrare ogni istante e ogni
dettaglio. Non è il modo di pensare e di osservare che mi riconosco, questa è
un'unica cosa allo stesso tempo: la parola è l'osservazione!
Una disposizione che mi accompagna in seguito durante la
nuotata in queste nuove acque.
Basse sotto riva, tanto da dover fare diversi metri prima di
immergersi e ammirare la moltitudine di piccole alghe rosse e verdi, ad
alberello, che si muovono con l'onda.
Poi uno dopo l'altro si presentano gli abitanti di questa
città di pietre sommerse.
Pesci di ogni tipo, granchi, molluschi... la lista
particolareggiata non potrebbe chiudersi senza dare conto dell’ospite più importante:
la luce, ormai quasi verticale, che fa risplendere ogni cosa come gioielli.
Nuotai avanti e indietro per un po', ma l'avessi fatto più a lungo o per meno
tempo la sensazione di appagamento sarebbe stata la stessa.
Il titolo che andavo cercando per questo libro è venuto da
sé, anche quello!
Lì sul momento mi suonava bene, ma sapete com'è per un titolo, dopo ne arriva uno che suona meglio e la lista si allunga; così lo memorizzai senza ricamarci sopra e mi dedicai a reintegrare zuccheri e liquidi prima del ritorno. Controllata la pressione del kayak e caricato il trofeo di legno –forse avevo esagerato quanto a peso e ingombro – preparai la videocamera per qualche ripresa dalla nuova prospettiva, oltrepassata la zona di transito delle grosse barche.
Prima della partenza un saluto a cinque cormorani che
galleggiavano in gruppo e poco dopo alla ventina di gabbiani altrettanto
placidi non distanti da una barca con una bella vela rosso rubino, forse gli
stessi che banchettano al ristorante del paese.
Tutto era tranquillo e lasciato alle spalle il tratto di mare
più trafficato smisi di remare.
Mi distesi comodamente sul kayak – su questo si può fare! –
sfruttando il sedile come cuscino e tenendo la pagaia con una mano usai l'altra
per riprendere il paesaggio, cogliendo l'occasione per dettare le mie
impressioni sino a quel momento. Più o meno mi trovavo sulla rotta seguita da
un gruppo di delfini l'anno scorso. Allora li vidi dalla spiaggia ma la
distanza non permetteva che di distinguere le code o il dorso.
Alcuni temerari raggiunto il posto in gommone addirittura si
sono tuffati in cerca di un contatto del terzo tipo, che non c'è stato. I
delfini se ne andarono prima che il disturbo di altre barche e di una moto
d'acqua anch'esse sulle loro tracce creasse dei problemi a quello piccolo.
Il pensiero di incontrarli in questa zona mi era passato per la mente ma rammentai un famoso video che mostrava una balena, irritata per chissà quale motivo, uscir dal mare per lasciarsi ricadere sopra una barca a vela. Il contatto del quinto tipo – potenzialmente letale – fortunatamente non si concluse con un dramma. Fatte le debite proporzioni basterebbe anche meno di un delfino per capovolgere il mio kayak. Meglio accontentarsi dello spettacolo abbastanza comune di un branco di pescetti che saltano, quasi volando fuor d'acqua. Per un nuotatore d'acque basse basta e avanza.
Tutto preso a registrare le mie note, cullato dolcemente
dalle onde, mi accorsi solo all'ultimo di un grosso yacht che arrivava a tutta
velocità alla mia sinistra, sbucando da dietro il promontorio roccioso che lo
nascose alla vista. Pensando di trovarmi ormai in una zona tranquilla non avevo
messo in conto la smania esibizionistica del capitano della barca, determinato
a sfoggiarne la potenza anche o soprattutto entrando in baia. Colpa mia, certo,
ma accidenti a lui! Non potendomi allontanare in fretta rimango disteso per
distribuire meglio il peso, tenendo fermo con i piedi il palo appoggiato sulla
prua e usando la pagaia solo per correggere la posizione, perpendicolare alle
onde in arrivo.
In pochi secondi arrivano – lo dico per darvi modo di
figurarvi a quale breve distanza mi è passato il bolide – davvero alte, ma
soprattutto con le creste minacciosamente ravvicinate.
Un bell'otto-volante quasi al limite del ribaltamento... e
non avevo fatto neppure in tempo a riporre in un sacchetto impermeabile la
videocamera.
Ma fortunatamente il peso del palo ha contribuito all'assetto
del kayak sull'onda, permettendomi di scampare all'eventualità di un bagno
fuori programma.
Eh sì, mi sono distratto, altrimenti avrei avuto margine per
allontanarmi, così da incontrare le creste delle onde distanziate e smorzate.
Ma stavo registrando qualcos’altro di importante (dopo il titolo del libro) approfittando della posizione dove mi trovavo per filmare le cime delle colline rocciose che celavano alla vista il mistero di quest'isola, un lago impossibile che non ha eguali.
Procedendo da nord a sud in auto, più o meno a metà
dell'isola di Cres, incastonato in quella che pare una insenatura marina,
appare il lago di Vrana. Oggi la nuova strada ne permette una visione ancor più
fugace che in passato, con la coda dell'occhio. La strada è stata costruita per
impedire eventuali infiltrazioni dovute a rovesciamenti di cisterne. Prima
dell’asfaltatura il tratto è stato impermeabilizzato e le acque di scolo
incanalate lungo tubature che le portano ben oltre il territorio protetto.
Tutto questo allo scopo di proteggerlo e preservarlo.
Una volta, negli aridi mesi estivi, le sue acque servivano ad abbeverare le di pecore e la gente del luogo arrivava con i carri fin sulla riva, per riempire botti e altri contenitori per l'uso familiare. Oggi è severamente proibito l'accesso all'uomo e alle greggi per evitare ogni possibile inquinamento.
Un fenomeno
assolutamente unico, senza repliche, formatosi oltre due milioni d'anni fa. È
lungo 5,5 chilometri, largo 1,5 e contiene circa 220 milioni di metri cubi
d’acqua con un'altezza media di 13 metri; la parte sud è la più profonda, 71
metri, oltre 60 sotto il livello del mare. Sul fondo si apre una grande
caverna, dicono ancora inesplorata. Tralascio le altre caratteristiche così
come alcune leggende e racconti, facilmente reperibili. Alcune note geografiche
debbo tuttavia riportarle: a nord-ovest il lago è protetto dal monte Helm, alto
poco oltre 400 metri. I lati est e ovest evidenziano maggiormente il raro
fenomeno cripto-depressivo di dolomie calcaree che l'hanno originato. Tre volte
la sua lunghezza verso sud vi è la cima più alta dell'isola, il monte Televrin,
588 metri, a chiuderne idealmente i confini. A sud-ovest, a meno di due sue
lunghezze, circondata dal mare ed esclusa alla sua vista si trova Zeca.
Prendetela e adagiatela nel lago, si adatta
alla perfezione... forse nessuno l'ha
mai notato finora.
Una volta a casa rividi con calma nella mente la successione
degli eventi e il loro significato.
Ho risposto all'invito dell'isoletta e il resto è venuto da
sé.
Quando, dopo il tempo dell'attesa che non è nelle nostre mani, si realizza un desiderio – un vero desiderio, che non nasce dall'avidità o da altre pulsioni ma che ha a che fare con il nostro modo di sentire e vivere, tanto che lo può influenzare – a volte ci viene dato, per aggiunta, qualcosa che non ci aspettavamo. Ho ricevuto più di un regalo da Zeca, che mi attese per consegnarmi quanto cercavo e molto altro.
Il titolo del libro, come ho già detto.
E altre cose allo stesso tempo, a cominciare da un palo che
mi ha permesso di non fare un bagno inatteso, rovinando la videocamera con
immagini e sonoro di quel giorno memorabile.
Ma soprattutto la sensazione che l'ispirazione e la strana
voce narrante abbiano a che fare con questa isoletta e Vrana, il lago
dell'isola maggiore.
Fino a quel momento quasi non ne ricordavo l'esistenza e forse
non l'avrei neppure citato nel libro, avendolo osservato in trent'anni solo un
paio di volte da lontano dalla cittadina omonima.
Tuttavia ad ogni ritorno nell'isola gettavo uno sguardo nella
sua direzione, quasi a salutare un amico che non era possibile avvicinare.
Avevo un programmino per il pomeriggio, che volete, a volte una mania: stamattina questo, poi quest'altro; come fanno in tanti, interpretando in modo pratico l'imperativo del “capitano, mio capitano...” di evidenziare a sé stessi cosa suggere di quel midollo dell'esistenza... ma non l'ho rispettato. Non che fossi troppo stanco.
Sono state le molte impressioni scritte in seguito
frettolosamente sui primi foglietti disponibili, quelli del cambio valuta, a
richiedere un abbozzo di stesura più chiara e a farmi rimanere tranquillo
dov'ero, a riflettere.
A volte viene da sé, come questo lavoro di scrittura, sotto
una veranda di vite che filtra il sole pomeridiano. Con le voci dei bambini che
giungono dalla spiaggia in basso e una striscia di sole che riverbera
sull'acqua. A piedi scalzi e torso nudo, immerso in un calore piacevole.
Sembra che qualunque cosa mi giunga potrei trascriverla,
metterla lì sul foglio per voi che leggete.
Non per darvela davvero, ma per indicare che è possibile.
Se è il momento giusto anche una breve escursione su un
canotto è un viaggio nel mistero della natura, della vita. Vi auguro che accada
anche a voi e riceviate a vostra volta dei doni.
Anche se avranno valore solo per voi quando ne racconterete
la storia qualcuno capirà.
Questa è la storia del dono di Zeca.
Che ringrazio di cuore.
..............................................
13° capitolo: Rungli Rungliot
È trascorso un giorno dall'escursione sull'isoletta di Zeca.
Mario vorrebbe ancora riflettere su quanto accaduto e le sue
implicazioni, ma la voce narrante in lui è attiva come non mai, del
tutto autonoma e ridondante d'energia.
Fin dall'inizio non ha mai cercato di resistergli, ma ora non
gli riesce neppure una mediazione tra il suo ritmo quasi frenetico e il
proprio, quasi che nei due giorni rimanenti prima di lasciare l'isola debba
esaurire la forza che l'accompagna.
Come un segugio che non molla la presa interviene in ogni
faccenda che riguarda i sensi – la vista soprattutto – di chi la accolse
fiducioso.
Il minimo spostamento d'occhi ed eccola descrivere la
magnificenza della nuova inquadratura, rivelandone particolari che usualmente
sfuggirebbero all'attenzione.
Interviene pure nella preparazione del pranzo: “No, no, lascia perdere le lenticchie, calde loro e caldo il giorno non va bene... ti serve qualcosa di fresco.”
Parliamo con noi stessi costantemente.
Questo flusso continuo sostiene non solo la nostra identità
ma anche la nostra vita fisica.
U.G. Krisnhamurti affermava che un solo secondo di assenza di
quel flusso può causare la morte del corpo. Diceva che è necessario per fare
qualunque cosa, e invitava i presenti a scrivere il proprio nome senza
pronunciarlo internamente.
Ho tentato in più occasioni, verificandone l'impossibilità.
Provate a vostra volta.
Rivela più questa semplice constatazione di approfondite
letture e dotte frequentazioni.
Perché tocca il nocciolo di quello che siamo.
Da lì ognuno segue la sua strada, ma là, dentro la meravigliosa macchina umana siamo tutti uguali, quello è il motore dell'esperienza e della vita come la conosciamo.
In alcuni momenti accade che la voce con cui ci rivolgiamo a
noi stessi non sia la solita.
Non mi riferisco a condizioni mentali alterate o patologiche.
Arrivati a questo punto sapete bene di cosa parlo – dell'ispirazione
– capace di manifestarsi attraverso la nostra stessa voce e i nostri stessi
sensi.
Se il corpo e la mente non sono indeboliti non c'è nulla da
temere.
Mi sento di indicare che questa condizione non riguarda
solamente chi è coinvolto in una attività artistica di qualunque genere, ma
anche chi si trovi in uno stato ricettivo.
Ci si arriva in molti modi e non ci sono regole, quello che
lo determina per uno non funzionerà per l'altro. Le avversità normalmente
stroncano le persone, ma alcuni proprio a causa loro si ritrovano così
sensibili e aperti da richiamare l'attenzione di quella forza insondabile.
Mario ritiene che sia l'ispirazione, voi usate il nome che
più vi aggrada. Non è questione di nomi.
Una volta che vi abbia toccato non la dimenticherete, a volte riconoscendola anche nelle esperienze altrui, non necessariamente artistiche.
Rammento un romanzo ‒ Narciso e
Boccadoro ‒ di H. Hesse.
Di due amici uno, l'artista, vive secondo la propria morale
(libertina) e l'altro, un monaco, è del tutto dedito alla religione e alla
filosofia.
La madre cosmica, secondo lo scrittore, accompagna il
primo sino al termine della sua vita, facendogli rivedere e accettare tutte le
sue azioni e liberandolo con ciò da ogni peso.
Non sono gli amori e la libertà di questa persona che fanno vacillare le convinzioni dell'amico, ma la constatazione che quel soffio, anelato per tutta la vita, non solo ha toccato quell'anima senza meriti morali ma l'ha frequentata in continuazione.
Le cose, tutte le cose, si fanno riconoscere e ci
parlano attraverso il vocabolario della nostra esperienza, passando per i sensi
o presentandosi subito alla mente.
Se hanno una voce la prendono dalla nostra memoria, così come
il gusto, l'odore o l'immagine.
Tuttavia qualcosa che frequenta il nostro mondo, quando si
riveste della nostra voce interiore per incontrarci, le impartisce
caratteristiche inusuali. La forza e sicurezza di quella voce non rimandano al
consueto modo di dialogare con noi stessi. E venga da essa o ne sia l'effetto
ci ritroviamo con l'energia per scrivere, dipingere o vivere senza dover
pensare a come farlo.
Quasi senza sforzo.
Mario lasciò perdere le lenticchie già pronte, dedicandosi a
una più fresca insalata greca.
Se pensava di cavarsela in fretta mescolando qualche
ingrediente a caso dovette presto ricredersi: la divinità (greca) preposta a
far rispettare la ricetta originale ne tollerò qualcuno di estraneo ma
intervenne con decisione esigendo assolutamente la presenza delle olive.
Una volta pronta si sedette per mangiare sotto la pergola di
vite all'esterno, dando un'occhiata per vedere se fosse presente anche la
giovane coppia, i nuovi vicini tedeschi.
Il giorno prima nello stesso posto mentre si accingeva a fare
i dovuti onori a un bel piatto di pasta non seppe trattenersi dal fare il verso
a Sordi – l'attore – declamando ad alta voce: “maccarone, m'hai provocato
mo' te magno!”
Si accorse solo dopo che la ragazza, qualche metro più in là, lo stava guardando. Troppo giovane, per giunta straniera, per conoscere quella scena esilarante. Leggermente imbarazzato bofonchiò qualcosa, a mo' di schiarimento di gola, tuttavia non sufficiente a toglierle l'impressione che ci fosse qualcosa di strano nel suo vicino.
Mentre pranzava si domandò se non fosse stato il troppo sole
a intensificare quello strano stato della voce narrante, rispondendosi che si
era ben protetto con camicia e cappello, aveva bevuto a sufficienza e si era
rinfrescato con una doccia... perdio, stava bene, perché pensare sempre ai
problemi? Ritornato in cucina di ogni cosa che prendeva in mano gli veniva
l'impulso di scriverne, raccontandone la storia. Ad esempio della caffettiera
che portava con sé, acquistata dopo una lunga ricerca del modello giusto,
piccola e di ottimo e spesso acciaio, con un doppio coperchio per disperdere
ancor meno il calore.
Se il caffè del bar non è sempre il migliore di sicuro il
calore ne esalta l'aroma, come sanno bene a Napoli, tanto da tenere le tazzine
in attesa della bevanda nell'acqua bollente.
Nel riempire il filtro col caffè non dimenticava quell'ultimo
odoroso piacere, il naso nel vaso, a suo avviso quasi migliore del
gusto, retaggio di un periodo in cui si dedicò alla degustazione di diversi
tipi di caffè, dalle miscele ai monorigine, senza però mai abbandonare la sua
bevanda calda preferita, il the. Di questo perse il conto delle varietà e
miscele degustate, nonché dei diversi modi di prepararlo. Un argomento
sconfinato, non per niente trovate molti libri in proposito.
Gli estimatori prima di giungere alla loro personale
formulazione il più delle volte attraversano diverse fasi. Quella dell'aggiunta
di limone o latte. Dell'uso di vari tipi di zucchero o di miele oppure senza
nessun dolcificante. Per non dire delle varietà e provenienze.
Molti anni addietro non si trovavano così facilmente e si
ricorreva ai viaggi di amici in Inghilterra o in India per approvvigionarsi
delle prelibate foglioline confezionate in lattine variopinte.
La ricetta attuale, stabilizzata ormai da diversi anni, è 50%
Assam e 50% Darjeeling.
Teiera d'argento da mezzo litro e aggiunta di miele d'acacia, liquido e quasi neutro al gusto.
Arriva un momento nel quale si sente di non dover più
procedere, se si è trovato qualcosa o va bene o ci si adatterà. Vale per una
qualità di the, quella ad esempio Rungli Rangliot che dicono significhi non
più in là di così, riferendosi all'esclamazione profferita da un tibetano
al termine di una lunga ricerca dell'eccellenza del the. Vale per molti aspetti
della vita di ognuno e anche per la nostra personale isola o montagna che sia.
La vita sembra così lunga da poter contenere l'infinito.
Questo da giovani, andando avanti con gli anni e frugando
nelle tasche ci si rende conto che di quell'infinito abbiamo afferrato ben
poco, giusto quello che filtrava dalla finestrella da dove sbirciamo il mistero
della creazione. Sarà poco ma è nostro, assolutamente unico – Rungli
Rangliot, non più in là di così – lì ci siete voi e non parole o esperienze
altrui, convinzioni o idealismi.
Dopo quel the non ne cercherete altri e nessuno potrà convincervi a un altro viaggio, un'altra estenuante ricerca. Per quel che vi riguarda siete arrivati a casa.
A chi non è capitato di salvare un insetto, o un animale?
Il peso soffocante della civiltà umana sull'ecosistema ha sterminato migliaia di specie che come noi hanno avuto la ventura di nascere in questa terra. Anche se piccoli e isolati gesti non modificano le cose, dimostrando solo che l'uomo ne è capace, quando può anche Mario contribuisce ad accrescere l'elenco dei salvataggi, per cercare di compensare l'altro elenco, quello delle eliminazioni, cui si applicò un tempo come quasi tutti i bambini. Gli insetti sono uno dei bersagli preferiti del loro desiderio di affermarsi. Tanti li considerano inutili e dannosi a priori, salvo ricredersi quando gustano il miele o toccano con mano il risultato di una lotta biologica rispetto a una chimica, quando bisogna intervenire.
Ripugnano a molte persone, tanto che è difficile trovare
qualcuno per il quale non vi sia un insetto particolarmente inviso. A Mario
api, vespe, mosche, larve, bruchi, ecc. non davano fastidio, anche se questo
non vuol dire che apprezzava le punture delle zanzare, anzi. Ma al contrario di
quelle non gli veniva di spiaccicare gli scorpioni talvolta trovati sui muri e
anche sul letto; li catturava con un bicchiere capovolto e li spostava a
qualche centinaio di metri di distanza.
Anch'egli aveva il suo punto debole: le forbicine, quegli
insetti terricoli con la coda a tenaglietta. Non li sopportava, e per quanto si
rendesse conto che fossero del tutto innocui li catturava, per spostarli,
facendo parecchia attenzione.
Probabilmente la faccenda originava dall'impressione che ebbe
da piccolo, quando gli dissero che di notte entravano nelle orecchie e da lì...
da far rabbrividire!
Forse non sono cose del tutto inventate, mi hanno riferito
che un'usanza in India preveda di deporre a terra il corpo umano ormai senza
vita, dove viene visitato da moltitudini di insetti.
Giungono appena la vita se n'è andata, percependolo in modo
misterioso.
Se qualcosa andrà storto con i micidiali armamenti o ne arriveranno di naturali dallo spazio, gli insetti sopravviveranno all'uomo. L'estrema adattabilità è la loro forza, quella che gli organismi superiori hanno dovuto abbandonare per sviluppare funzioni complesse, ultima la coscienza, ammesso che abbia avuto uno sviluppo.
Gli ci vollero anni, ma Mario alla fine superò
quell'avversione e oggi può tranquillamente prenderli in mano, come riesce a
fare con i ragni di piccola taglia. I ragni saltatori, capaci di balzi
anche sessanta volte la loro lunghezza e di aderire all'istante nel punto
d'arrivo. Ce ne sono di diverse misure e colori, da un paio di millimetri a un
centimetro zampe comprese, grigi o appena marrone.
Il suo preferito ha l'addome rosso come le quattro zampe
anteriori, percorso longitudinalmente sul dorso da una riga nera.
È l'equivalente terrestre del pesciolino di scoglio; facendolo con pazienza si riesce a convincerlo a passeggiare sulla mano e indurlo a fare qualche saltello dimostrativo, fino a quando non si esibirà in uno da primato manifestando con ciò la sua richiesta di privacy.
A volte diventa necessario eliminare alcune specie di
insetti, perché hanno invaso un luogo domestico o sono pericolosi.
Ritornato da una vacanza nella piccola casetta di periferia
dove un tempo viveva, Mario si accorse del notevole via vai di calabroni che
entravano da un'imposta di legno fin dentro la soffitta.
Pur essendo utili all'ambiente nel contenere mosche e altri
insetti dannosi, tanto che ad esempio in Germania sono protetti, da noi godono
di pessima reputazione, addirittura sono chiamati ammazza-cavalli e
molti ritengono che tre punture possano far morire anche un uomo.
A parte che la puntura di un'ape è molto più forte, dipende
tutto dalla reazione dell'organismo, che può provocare uno shock anafilattico,
dall'esito mortale se non trattato.
Una breve e cauta ispezione rivelò un nido grande come un
pallone da calcio proprio aderente all'infisso, dalla parte interna. Non che
avesse bisogno di aprirlo spesso, ma i pesanti insetti non si limitavano a
frequentare solo il proprio nido. Volavano per la soffitta anche se quasi buia.
Quando si presentarono in cucina e in camera venne il momento
di agire, nel frattempo il nido era diventato enorme, aumentando del doppio!
Di solito intervengono i vigili del fuoco, con un getto di
prodotto tossico per la specie.
La prospettiva di vedersi inondata la soffitta e il suo
contenuto non lo convinceva, così pensò qualche giorno ancora ad altre
possibilità. Una volta un calabrone lo punse proprio sul collo e dovette stare
a letto per ore, con le vertigini e un gran dolore prima di riprendersi, il
pericolo non è da prendere sottogamba.
Era agosto, ancora un paio di mesi e i pericolosi insetti
avrebbero cominciato a morire da sé.
Per l'esterno si poteva portar pazienza, astenendosi dal
frequentare la zona d'ingresso del nido.
Ma doveva del tutto impedire che dalla soffitta
raggiungessero ancora le stanze.
Questa fu la soluzione: costruì una struttura – una specie di
grande scatola – in legno e plastica trasparente da posizionare davanti al
nido. Indossò una cerata da barca chiudendo con abbondante nastro adesivo ogni
spazio tra indumento e stivali, facendo altrettanto con i grossi guanti da
lavoro e la rete a maglie fini forgiata a mo' di scafandro per proteggere la
testa. Memore della brutta esperienza precedente controllò più volte ogni
dettaglio e si avviò. Il rumore di migliaia di ali vibranti man mano che si avvicinava
nella penombra e il caldo gli fecero aumentare il battito.
Posizionata la struttura sigillò accuratamente ogni fessura.
Si meravigliò che nel frattempo solo un paio di insetti volarono in
esplorazione. Alla fine, grondante di sudore, guardò quel mondo a cui concesse
di terminare naturalmente il proprio ciclo vitale. La grande casa di cartapesta
brulicante di guerrieri si sarebbe svuotata dei suoi abitanti e della regina.
Ogni tanto andava a verificare la situazione; verso fine novembre non c'erano più insetti, ma attese ancora un mese prima di rimuovere protezione e nido.
In passato, proprio nel posto della vacanza attuale, mentre
soffiava la bora un giovane cormorano ciondolava malamente per la strada.
Sembrava aver perso l'orientamento e le persone che passavano
più che guardarlo – e qualcuna schernirlo rifacendogli il verso – non facevano,
mentre le auto lo schivavano appena.
Mario lo allontanò dalla zona trafficata,
sperimentando sulle mani la discreta forza del becco. Ma non c'era verso, dopo
poco riapparve sulla strada.
Non è normale per quella specie di uccello, che a differenza
dei gabbiani non si avvicina all'uomo, tanto meno camminando con le zampe
palmate sull'asfalto. Aveva un piccolo gommone e fin che potè resistette alla prospettiva di uscire controvento alla bora e alle onde per portarlo fuori
dalla baia, dove fosse almeno al sicuro dalle auto.
Cosa che infine fece, bagnandosi e sopportando le sue
beccate finché non lo mise in acqua.
Lo guardò galleggiare finché non uscì dalla visuale, ma nella sua memoria ci restò sempre.
Nell'appartamento di quest'anno c'è una stufa a cherosene
collegata con i tubi alla canna fumaria. Era quasi notte e Mario stava finendo
di riordinare degli appunti quando si accorse di qualcosa di scuro che si muoveva per terra dietro a
quella. Non era un insetto e neppure un piccolo topo. Cresceva e diminuiva di
dimensioni procedendo con difficoltà, quasi trascinandosi.
Ancor prima di alzarsi per vedere da vicino l'ospite quello
si alzò in volo!
Un nottolino (pipistrello) che riuscì a trovare la strada per
sfuggire alla tomba di ferro dov'era caduto. Mario alzò immediatamente la
zanzariera dell'unica finestra per permettergli di uscire ma l'animale, dopo
acrobatici voli per la stanza, quando vi giungeva si aggrappava al muro
evidentemente non percependo la via libera. Forse era troppo debilitato e ne
aveva sofferto il suo sonar d'orientamento, fatto sta che passava il tempo
volando e si stancava sempre più.
Bisognava fare in fretta.
Provò a spegnere la luce ma non funzionò, così attese al
centro della stanza che si fermasse.
Volò ancora un minuto schivando più volte solo all'ultimo la
sua testa prima di afferrarsi stremato al muro, dove lo raggiunse in un istante
coprendolo delicatamente con un fazzoletto.
Uscito di casa lo riaprì con cautela; di dimensioni quanto
una noce gli ci volle un po' prima di spiegare le ali e allontanarsi.
Fortunatamente aveva ancora energie per farlo.
Profondamente soddisfatto per l'esito felice si sentì un privilegiato,
aveva sempre ammirato il loro volo e non avrebbe mai immaginato un incontro
così ravvicinato.
Anche quando in volo gli sfiorava la testa non produceva il
minimo rumore con le sue ali membranose e Mario non avvertì neppure un leggero
spostamento d'aria.
Pure quell'ombra silenziosa emanava qualcosa di indefinibile, qualcosa che alcuni in passato non sopportarono dando vita alla superstizione che fossero animali delle tenebre, intese come il male.
Superstizioni che colpirono pure i gatti, che pagarono a caro
prezzo la loro vita notturna ed elusiva.
Ne ho avuti diversi e tutti in un modo o nell'altro arrivati
per conto loro. Avrei tante storie e mi trattengo perché non riuscirei a
fermarmi. Per tutti ricorderò il mio primo gatto, una gatta per la precisione.
Girando per un mercato mi fermai a guardare la grande bancarella degli animali
in vendita. Uccelli di tutte le specie, tartarughe, pesci... e gatti quel
giorno. Quattro o cinque gattini soriani in una gabbia. Davvero belli, ma non
avendo nessuna intenzione di assumermi la responsabilità di accudirne uno me ne
stavo per precauzione in seconda fila.
Una signora davanti a me chiese di prenderne uno in mano,
subito esaudita dal venditore che conosceva l'effetto magnetico dell'animale
quando sia in contatto con una persona ricettiva.
Vi giuro che dico il vero, la micetta spiccò un balzo e
atterrò sulle mie braccia.
Non mi restò che darle un nome, Licia.
E ringraziarla qui per la compagnia e le tante cose che mi ha insegnato con la sua devozione, sino all'ultimo.
In un altro mercato, quello del pesce, fu la volta di un
anguilla a sfuggire dalla mannaia e rifugiarsi tra le mie gambe. A quel tempo
avevo appena letto “Io speriamo che me la cavo”. Fu il primo pensiero
che mi venne in mente. Pagai l'equivalente in lire del suo peso e dissi al
pescivendolo desideroso di aiutarmi facendola a fette che preferivo tenerla
viva e fare da me.
La liberai in un laghetto, per quella volta se l'era
sicuramente cavata.
Come se la cavarono, dopo accuditi, alcuni uccellini
rifugiatisi davanti alla porta di casa, poco prima dell'arrivo del gatto.
Tante cose si dimenticano in fretta, non hanno sostanza.
Gli incontri con altre creature, non cercati, ne hanno abbastanza da lasciare una traccia indelebile nella memoria.
Ascoltando il suono di una cicala che non sentivo da un paio
di giorni mi sono chiesto se era lei che non cantava o io che non la udivo. E
quindi un altro pensiero, una considerazione: se tutto quello che mi giungeva
valesse davvero la pena di metterlo per iscritto.
Tutte queste piccole storie di animali e insetti, di normali
attività giornaliere e ricordi.
A chi interessano le cose apparentemente semplici in un mondo
dove solo l'eclatante riceve attenzione?
Certo che se si scrive per rincorrere il pubblico, per quanto
ben strutturato e composto suonerà un po' stonato. Tuttavia potrebbe avere
successo, tanti cercano proprio quello.
Qualcosa che si riconosca subito, per quanto fuori
dell'ordinario.
Che segua la traccia dominante, spesso solo apparenza.
Non c'è dunque speranza per chi si confronta con la
quotidianità?
È difficile scriverne se non è una vera condizione di vita e
non dev'essere una cronaca, men che meno un diario. Non sono tanto le storie
che riempiono le pagine, quello che davvero conta è il ritmo, quasi la
sensazione del respiro della vita.
All'uscita, decenni addietro, mi imbattei in un libro ‒
Piccolo karma ‒ di C. Coccioli, un nostro
scrittore pressoché sconosciuto da noi ma stimatissimo in Francia, oggi non più
in vita.
Non è un libro che si legge per arrivare presto alla fine,
piuttosto per tornare all'inizio.
Anzi prima dell'inizio, prima di aprire il libro, a noi
stessi. A come portiamo avanti la nostra vita in accordo alla nostra misura, al
nostro piccolo destino o karma, per chi ci crede.
Dopo poche pagine si avverte quel respiro che si mantiene
costante.
E si sente che non è poi così diverso dal nostro. Quella fu
la mia impressione e ancora l'ho presente.
Le storie di ognuno di noi sono diverse ma la sensazione è che provengano dalla stessa fonte, che un filo le colleghi tutte.
Per rispondere alla domanda se vi sia speranza per chi si confronta
con la quotidianità e ne scrive vi racconto due storie vere.
La prima riguarda la scimmia giapponese Macaca fuscata,
che vive sull'isola di Koshima.
Nel 1952 dei ricercatori lasciarono delle patate sporche
sulla sabbia che pur gradite alle scimmie non venivano mangiate. Finché un
giovane esemplare le lavò, insegnando l'espediente alla madre. Ci vollero sei
anni perché un gruppo di 100 esemplari imparasse come fare. Raggiunto quel
numero successe qualcosa di incredibile: tutte le scimmie dell'isola misero in
pratica la tecnica! Non solo, altre colonie di scimmie su altre isole e sulla
terraferma impararono a lavare le patate. Sorprendentemente l'abilità venne
trasmessa ad altre scimmie lontane.
Non è certo se esista un numero definito per causare il fenomeno, che è divenuto famoso come il "Fenomeno della Centesima Scimmia".
Nella seconda storia entriamo nei laboratori dei chimici,
dove costoro costruiscono (sintetizzano) sempre nuove molecole. Ormai sono
decine di migliaia.
Una dei punti d'arrivo di tali composizioni è la
cristallizzazione della sostanza.
Ottenerla pura e solida.
Un compito tutt'altro che semplice; a volte passa molto tempo
prima che qualche laboratorio riesca nell'impresa. Ma dopo di quello
stranamente vi riescono anche gli altri, come se la nuova forma una volta che
si sia consolidata in qualche modo faccia da stampo per i successivi
tentativi.
Ovviamente tale forma-stampo non è fisica, piuttosto
eterica o energetica, ma l'argomento è troppo complesso per trattarne qui.
Se fossero possibili delle analogie prima o poi un editore e
in seguito i lettori apprezzeranno quel tipo di scrittura avviando il processo
di consolidazione.
Ma non c'è garanzia sui tempi.
14: L'ultima estasi
È l'ultimo giorno e Mario decide di andare a Orlec per
verificare se la roccia dall'instabile equilibrio abbia ceduto al suo destino,
o se gli sia stato concesso dell'altro tempo.
C'è un vento di bora da far volar el capèl e mare
grosso.
Raggiunge la spiaggetta poco dopo le otto, dove le difficili
condizioni non fermano una giovane coppia dal cimentarsi sulle onde ben alte.
Erano lì da un bel pezzo, forse ci avevano dormito.
Nell'osservare la loro temerarietà pensò che un tempo
l'avrebbe fatto a sua volta; ora è un'altra storia, l'età rende prudenti e
affezionati alla propria pellaccia. Meglio dedicarsi alle riprese di mare,
sassi, luce, cielo e di lui, el masegno dall'instabile equilibrio, lo
scopo della visita.
Ancor più erosi un fianco e la base tuttavia stava ancora là!
Non era la sua ora, questione di baricentro. Si domanda come
sia messo il suo.
Compiaciuto di avere ancora motivo per un futuro ritorno inizia la risalita e dopo poco arrivano due grifoni in volo. Forse ispezionano una prima volta il territorio ora che il calore ha prodotto una corrente ascendente in grado di sostenerli. Visti dall'alto i pochi terricoli frequentatori della baia non sembreranno diversi l'uno dall'altro. In ogni caso non sono il loro cibo, e non ci sarebbe motivo per virare e abbassarsi tanto da sorvolare Mario sulla perpendicolare, permettendogli pure una discreta ripresa. Però lui ci sperava di incontrarli e quale che sia il vero scopo del loro comportamento è stato esaudito.
Qualche metro avanti ecco oltre il ciglio della strada
dissestata una piantina di limonium virgatum, quella che non riuscì a
fotografare nella sua baia e di cui ha trovato il nome francese – lavande de
mer – che è anche la risposta alla somiglianza del colore e forma dei fiori
con l'amata pianta provenzale.
È l'unica e di tanti posti che il vento poteva scegliere per
depositare il seme da cui nacque, proprio sul terreno incoerente di una piccola
frana è andato a metterlo.
Per quanto sia resistente e forti le sue radici è sicuro che
la frana se la porterà giù con sé, forse fin dentro il mare. Anche in questo
caso è solo questione di tempo, ma intanto inonda di lilla il suo piccolo spazio.
Un colore vivente, come i blu e i gialli dei fiori di bulbose nate tra
le aride fessure, solo stelo e fiori, non potendo garantire acqua anche per
qualche foglia.
Più sopra qualcun altro raccoglie la salvia, forse non era solo sua l'impressione che qui avesse più essenza. A sua volta procede alla raccolta – qualitativa – qualche foglia qui e là, solo dalle piante più forti. Alla fine non più di due pugnetti, venti grammi scarsi. Non era il suo modo – lui ne raccoglieva tanta da doverla gettare quando invecchiava – questo l'ha imparato dalla compagna, che in ambiti non solo vegetali gli ha insegnato diverse cose.
Finita la salita un ultimo sguardo alla baia e un
arrivederci, se sarà possibile.
La strada permette il passaggio di una sola macchina, nel caso
si attende su qualche slargo ricavato apposta. Ai bordi la rete di recinzione è
per lunghi tratti divenuta tutt'uno con la vegetazione, rovi soprattutto. Altra
fermata per la raccolta, stavolta quantitativa di more, mai viste così
abbondanti.
Occorre darsi un limite: il sacchettino di plastica e un
unico posto di raccolta.
I frutti sono disposti come i chicchi sulle pannocchie di
mais, però con molto più spazio tra essi, permettendo una maturazione completa
per tutti. Grosse bacche nere – o blu? O indaco? Che colore sarà mai?–
succulenti e dolci. È ancora presto, neppure le dieci e il sole non picchia,
fermarsi poco sulla spiaggia ha portato dei vantaggi, sei-sette etti almeno.
Un'ottima marmellata a cui pensa non toglierà i semini. Sarà come sarà, un po' selvaggia.
Per risciacquarsi le mani appiccicose usa dell'acqua che ha
l'abitudine di portare con sé in una bottiglia di plastica della minerale.
Acqua che avrebbe altrimenti adoperato per una improvvisata doccia sulla
spiaggia dopo il bagno, una bella sensazione.
Da meravigliarsi che altri non lo facciano, mai visto uno!
Sarà anche una mania, ma usarla dopo un bagno nell'acqua fredda... perché la
porta pure calda!
Opposta a Orlec c'è Valun, un altro bel posto con una
splendida luce. E con l'acqua del mare che rimane tiepida anche dopo la bora,
il posto ideale per lunghe nuotate senza brividi e per trascorrervi del tempo
in tranquillità, qualità che sembra accomunare chi la sceglie.
C'è una chiesetta con raffigurazioni a prevalente colore
blu-celeste che richiama quello del mare, e due figure di pesci, una per parte
su altrettanti pilastri, ribadiscono l'importanza dell'elemento.
Di cani addestrati capaci di numeri incredibili se ne vedono
parecchi in televisione.
Qui ne vide uno di piccola taglia che si tuffava a comando e
con bello stile.
Risalendo velocemente in attesa di un nuovo ordine. Avanti e
indietro per mezz'ora.
Se non era un pesce-cane era di certo l'inverso, un
cane-pesce, vista l'abilità.
Capace pure di prendere i sassi sott'acqua unendo le due zampe
anteriori, un fenomeno.
Ma più che i numeri da circo lo impressionò l'espressione, sprizzava felicità!
Dopo quanto accaduto nell'isoletta di Zeca ho come la
percezione della presenza di Vrana, il lago, pur senza vederlo. Non è lo stesso
che dire il lago di Vrana, io sento che il lago è Vrana.
Ho voglia a dirmi che è solo suggestione e risolvo la
questione dicendomi che lo sento perché è diventato un elemento
importante della storia. Una sorta di risonanza tra il mondo reale e quello che
prende vita in quello che sto scrivendo. Ma avverto che c'è molto più di
questo.
Comunque sia, visto che non avrei un'altra occasione decido
di osservarlo da una diversa prospettiva che non quella solita dalla cittadina
omonima, che permette solo la visuale ovest-est , la più corta. Non intendo
certo infrangere il divieto e raggiungerlo, uno che l'ha fatto riferisce di
aver incontrato un essere con tre occhi, due azzurri e uno nero, il buco della
canna di un fucile.
Un cameriere mi indica un paesetto da dove proseguendo si
dovrebbe vederlo in direzione nord-sud in tutta la sua estensione. Raggiunto in
breve il paesetto di poche case mai toccate dai benefici del turismo, finisco
per entrare nella stanza di una di queste. Piccola e bassa, al contempo cucina
e soggiorno e con un modesto arredamento che avrei potuto vedere quarant'anni
prima.
Per quanto il luogo sia dimesso le due persone che ci vivono
– una vecchia donna vestita di nero con un velo in testa che armeggia su una
stufetta, e il figlio sdraiato sul divano a guardare la televisione – mi
accolgono gentilmente, disponibili alle mie domande.
Mi dicono che del sentiero ormai invaso dalla vegetazione è
meglio scordarsene, così chiedo almeno qualche notizia sul lago stesso. Sembra
che tanti conoscano la storia dei lavori eseguiti tempo fa per aumentare la
portata dell'acqua prelevata. Pare che a seguito dell'uso di esplosivo si sia
formata una voragine che avrebbe potuto comprometterne l'equilibrio, tappata
per fortuna appena in tempo col cemento. È opinione diffusa che non avrebbero
mai dovuto autorizzare un tale tentativo, anche se ufficialmente dicono sia una
frottola.
Un'altra storia s'è aggiunta quest'inverno, quella dello
sloveno scomparso rovesciatosi con la barca durante una battuta di pesca a
causa del vento. Ma non c'era vento e nessuno ha visto.
Un giallo o forse una delle tante storie, aumentate dalla fantasia, che riguardano luoghi interdetti.
Mentre parliamo la donna scola la pasta su due piatti e li
mette sulla tavola.
Faccio per accomiatarmi ma mi rispondono di non aver fretta,
che c'è tempo per mangiare.
Le due persone, disponibili al punto di attendere il termine
della mia visita per pranzare con un piatto di pasta ormai fredda mi mostrano
come non si viva di solo pane.
Se torno l'anno venturo mi riprometto di portargli qualcosa.
Un'altra indicazione mi conduce in un paesetto su una delle
punte dell'isola, dove arriva un turismo che cerca tranquillità e prezzi
modesti, accettando per questo di percorrere una decina di chilometri
aggiuntivi per raggiungere mare e cittadine.
Il boss del posto, in senso buono, si fa subito incontro e in un paio di minuti mi elenca quello di cui dispone o può procurare. Ha delle camere, un appartamento, un altro in sistemazione, una barca, cucina le specialità dell'isola... di mestiere fa il carrozziere salvo due mesi d'estate che trascorre qui; sono sicuro che dandogli il giusto saprebbe cantare o chissà che altro. Visto che non si sa mai do un'occhiata all'appartamentino adesso libero. Restauro perfetto, mantenendo l'aspetto esteriore immutato. Salutando mi indica un luogo in discesa da cui prendere delle foto del lago.
Ormai è l'una passata e il sole picchia senza scampo, ma
ormai sono in ballo e ci vado.
Purtroppo devo aver capito male, dopo essere finito in un
campo di patate torno sui miei passi e domando chiarimenti a un'anziana signora
di una casa vicina.
Da cinque gradini sopra di me iniziamo a parlare e lo
facciamo per almeno un quarto d'ora, senza pensare a un posto più comodo. Stare
in alto forse le dà sicurezza, un senso di importanza.
Per me è importante quello che dice, parlerei per ore
chiedendole di tutto.
Senta o meno il mio interesse dialoga tranquillamente e senza
riserve. Di cosa? Di tutto, ma specialmente del lago. Di quando un tempo
portava le pecore per un sentiero lì vicino ‒ purtroppo
anche quello ora in disuso ‒ e in un paio d'ore giungeva
sulla riva.
Di come bevuta là quell'acqua ne avvertiva qualcosa di
speciale.
Pur arrivando adesso con l'acquedotto direttamente a casa non
è la stessa.
Dice che ci mettono qualcosa (il cloro?), ma ovviamente la
beve. Mentre il fratello, emigrato e stabilitosi in Australia, quando ritorna
in visita preferisce quella della vecchia cisterna, incitandola a riconvertirsi
al sapore antico.
Parliamo della cisterna e di come fin da piccola la madre la rimproverava per ogni goccia sprecata: “se la xe un po' sporca no butarla, dala a le piante...”
Anch'io bevo l'acqua di quest'acquedotto, quella che da noi
oggi si chiama l'acqua del sindaco.
Ho smesso da qualche anno di comperare quella in bottiglie e non mi ricordo più perché avevo iniziato. Tanto tempo fa qualcuno ha messo in giro la voce che fosse pessima, e molti degli stessi abitanti dell'isola le preferiscono quella in bottiglie, molto più cara che da noi. A volte, soprattutto a Lussino che è il termine della linea il cloro si sente un po', ma basta lasciarla qualche ora a riposo dentro le caraffe per eliminarlo quasi del tutto. Pur se manovrata da pompe e addizionata di disinfettante la preferisco, almeno per me quel qualcosa di speciale è ancora presente.
Anche la signora mi racconta la storia dello sloveno,
ventilando affari di mafia e politica; con la barca che si rovescia per il
vento... ma nessuno ha visto. Nessuno può avvicinarsi al lago.
Adesso neppure le capre possono farlo. Giustamente si cerca
di preservare quel tesoro, già sottoposto a un prelievo arrivato, secondo
alcuni studi, al limite.
Il rischio c'è stato, la risalita dell'acqua salmastra. Il
livello era sceso troppo per 3 anni.
Ma sembra che ci sia un ciclo quadriennale. Se oggi la
situazione non preoccupa come prima non è un buon motivo per sprecare l'acqua
come si vede fare, soprattutto nelle cittadine più grandi.
Ditemi il senso dei prati inglesi qui, nel regno della macchia mediterranea! Guardatene le foglie, come senz'acqua sono verdi e turgide. O tenaci come quelle della salvia, che è endemica in buona parte dell'isola, così ricca di resina che si appiccica alle dita.
È stata una bella chiacchierata, c'era una differenza d'età
ma non di vedute, quello che si dice un sentire comune riguardo i valori della
vita. La preservazione dell'ambiente soprattutto, che senza quello non seguono
gli altri. L'acqua, l'aria e la terra sono la vera ricchezza.
Per quanto sia ovvio se ne dispone come fossero infinite,
trattando questi tesori alla stregua di una discarica per rifiuti solidi,
liquidi e gassosi.
Secondo voi quale dovrebbe essere l'insegnamento
fondamentale?
Una tra le discipline scientifiche – matematica, chimica,
fisica, ecc. – oppure umanistiche o artistiche? O la religione?
Io e quella signora diremmo che il primo degli insegnamenti è
non sprecare, questo contiene gli altri. Contiene i numeri in entrata e uscita
delle risorse disponibili. Contiene le sostanze, il loro impatto sull'ambiente
e come recuperarle. Contiene l'energia che se ne può ricavare e il concetto di
ciclo chiuso, rinnovabile. Contiene la bellezza di un ambiente preservato che
ci spinge a ritrarlo o scriverne. Come nulla va sprecato in natura contiamo che
non lo sia neppure la vita, che possa esservi un senso alla sofferenza e
all'ingiustizia patite dall'uomo.
Forse anche la religione origina da questo.
Saluto e in auto affronto la ripida discesa del ritorno.
Lo spicchio azzurro che scintilla un istante alla mia destra
non è il mare, ma il mio amico, Vrana.
Era questa la discesa di cui parlava il boss! Costringo la
macchina a una impegnativa retromarcia in salita – sono stato al sole a lungo,
non me la sento di camminare ancora – per prendere una foto. Sfocata, data la
distanza.
Ma è come la parola dell'amata, pur sempre un contatto.
Ritornato a Martinsica, per raffreddare il corpo accaldato
sono bastati due minuti nell'acqua baciata dalla bora. La successiva doccia
calda mi ha confermato di non avere calore in eccesso da qualche parte. Tanti
spostamenti, camminate, sole, impressioni... richiedono di far riposare il
corpo un'oretta, prima di recarmi al bar della ballerina, luogo dove raccolgo
le idee trascrivendole come vengono.
Appena giunto non ho neppure il tempo di sedermi che la voce
narrante parte come un cavallo a briglia sciolta; altro che raccogliere le
idee, devo tenermi in sella!
Solo per un istante mi verrebbe da domandare un po' di
respiro, ma passa giusto in un attimo, bisogna battere il ferro finché è caldo,
poi, quando ha preso forma è quella.
In questa vacanza non avevo con me quaderni né fogli. Fin
quando mi venne da scrivere qualcosa – iniziai con il biglietto del traghetto –
ho sentito che doveva andarmi bene qualunque cosa per metterci gli appunti. I
tovaglioli di carta ad esempio. O la pagina di una rivista, dove un po' di
bianco c'è sempre. Una fissazione? No, è venuta così e la seguo, ormai fino
alla fine.
Quando la carta era preziosa neppure un bordo veniva
tralasciato, come faceva Leonardo.
Il foglio che accortamente mi sono portato appresso è
l'ultimo di una rivista italiana ben conosciuta di piante e giardinaggio, ma
non solo. Che strano, mentre lo dispiego qui al bar dove sono venuto a godere
dell'estasi di scrivere, vi leggo l'intestazione “apprendista di felicità”.
Non me ne voglia l'autrice, non è una valutazione sul suo
lavoro, ma il terzo di pagina lasciata in bianco mi ha davvero reso felice.
Non entro nel merito di quello che con impegno ha scritto e
ho letto, ma come si ode il suono tra i silenzi si leggono le parole tra le
righe. Poiché ho bisogno di un posto dove mettercele le parole ringrazio per
quelle righe “in bianco”.
Felicità è fare e ricevere un dono, come uno lo usi non vi
riguarda più.
Inizio a scrivere, di materiale ne ho in abbondanza. So che arriverà il momento di separarmi dalla voce narrante, il cicerone che mi ha guidato fuori e dentro di me permettendomi di raccoglierlo da ogni parte: “Guarda, non è difficile, è dappertutto...”
Nel tavolino davanti a me sta per sedersi una signora bionda,
sul metro e sessanta e dal fisico asciutto. Tiene al guinzaglio, uno per mano,
due grossi cani pastore della brie.
Quello color crema la segue docile. Il nero deve stringerlo
per il collare e parlargli in un orecchio, pare un po' irrequieto. Ma riesce a
farlo sedere alla sinistra della sua sedia, l'altro a destra.
La donna avrà poco meno di una quarantina d'anni, ma ecco che
arriva il figlio con un gelato, tredici direi.
Poi la figlia, un paio di meno, e infine un uomo – famiglia
numerosa, uno di quei cani mangia per due! Chiedendomi se anche gli animali
siano maschio e femmina osservo con discrezione l'uomo.
Di poco ma par troppo giovane per essere il vero progenitore.
Il modo di fare è leggermente impostato. Controllato, anche se non vorrebbe
darlo a vedere.
Cercando in tal modo una forza che non gli è riconosciuta, è
lei che comanda.
Che ne abbia la capacità si capisce poco dopo, quando passa
uno dei tanti cagnetti e il suo, quello nero, fa per corrergli dietro
portandosi appresso sedia e padrona come fosse una slitta.
No chances! – nessuna opportunità. La forza di quella
piccola mano gli stringe in un batter d'occhio il collare a strozzo,
togliendogli fiato e impeto. Dopo averlo umiliato gli fa capire che è questione
di ruoli, è lei il capobranco. Il cane alla fine si tranquillizza.
Adesso può ricompensarlo, lasciandogli mangiare il suo cono
con quasi metà del gelato.
L'altro cane non fa una piega. Neppure gli altri del branco
fanno una piega o dicono qualcosa.
Questione di ruoli.
È tempo di prepararsi per l'ultimo imperdibile e meraviglioso
tramonto, oggi alle 19 e 45 per la precisione, l'ultima estasi di questa
straordinaria vacanza. Mi incammino verso casa, ben attento a non aumentare il
passo, e rifletto su questo essere diventato in questi giorni come una carta
assorbente – luoghi, persone, animali o insetti, suoni e dialoghi – tutto mi ha interessato.
Perché dopo lo trascrivevo? No, non potevo farne a meno. Una
volta iniziato la voce narrante mi ha condotto sino al termine, la fine del
libro. Forse ritornerà per una nuova avventura, se ci sarà.
Vrana deciderà e a me sta bene il suo giudizio, pazientate di arrivare all'ultimo capitolo per comprendere tale affermazione.
Sulla spiaggia sassosa un uomo anziano – verso gli
ottant'anni – se ne sta seduto faccia al sole su una di quelle comode nuove
sedie portatili e leggere. Tiene gli occhi chiusi e dà la sensazione di anelare
a quel calore, quasi gli mancasse. Almeno due parole sul sole, sulla luce,
calore ed energia che emana. Tutto origina da lui e tutto potrebbe finire a
causa sua, se diventasse troppo forte o troppo debole. Ricordo un racconto di
fantascienza: la terra si arroventava sempre più a causa della prima
eventualità. L'acqua evaporava a vista d'occhio e in alcune zone iniziava a
bollire.
Le strade dall'asfalto ormai sciolto impedivano ogni fuga
verso una impossibile salvezza.
Chi se ne rendeva conto al più cercava di vivere gli ultimi
giorni contrastando quel calore con dell'altro calore, quello umano. E pur se
non rinfrescava almeno per una piccola parte confortava.
Il ragazzo della storia fu costretto a letto, sudava e
vaneggiava di sentirsi bruciare, come stava accadendo a ogni cosa sul pianeta.
Percepì la mano che gli tergeva il sudore e a quella si
abbandonò, sia quel che sia.
Non sentì più le parole dei presenti che gli invidiavano
quella fine, quel calore.
Mentre il sole si stava inspiegabilmente spegnendo e ghiaccio e buio avvolgevano ogni cosa.
Mancano solo un centinaio di metri a casa, dove già mi figuro
seduto sotto la pergola volto in direzione del tramonto che avverrà dietro le
colline, dopo aver colorato anche il mare d'arancio.
Sull'uscio del vialetto della sua casa incontro una donna
ormai anziana, non è la prima volta che la vedo. Alla corporatura robusta si
aggiunge un gonfiore dovuto a qualche scompenso, e forse per problemi di
circolazione alle gambe cammina lentamente. Ma sono i biondi capelli scomposti
e la presenza mentale incerta a evidenziarne la fragilità. Appena gli arrivo
vicino, con lo sguardo perso davanti a sé mi domanda se voglio fichi. A me, che
conosco alcuni dei migliori alberi dell'isola. Rispondo che ne ho davvero
mangiati troppi, ma inizio a fare due parole, perché no.
Le chiedo come va e se ospita turisti. Risponde che morta la
sorella metà della casa appartiene al fratello che vive altrove; in quella che
gli resta non ha spazio né avrebbe la capacità e tanto meno la forza per badare
ai turisti, ma questo lo capisco da solo.
Avrebbe lei bisogno di un aiuto. Condivide il destino di
tanti anziani in ogni parte del mondo che pian piano non ci sono più con la
testa, sino alla svolta finale, quando la personalità evapora e nel corpo si
consumano anche i ricordi. Per ultimo se ne va il tatto, lo stringere la mano.
Avrebbe anche dell'uva, ma non è matura. Sbircio la pergola
striminzita, chicchi tra i più piccoli visti in giro. Dove sono alloggiato i
grappoli peseranno anche mezzo chilo.
Passato un minuto di conversazione la saluto: “Xe vedemo
l'anno prossimo, parto domani, ciao” - “alora buon viaggio, ciao.” - risponde
cordialmente, continuando a guardare davanti a sé mentre mi allontano.
Ancora poche decine di metri, dalla riva sembra che osservino delle barche al largo.
Mi incuriosisco e chiedo dall'alto della strada a un
gruppetto sulla spiaggia in basso, nel mio poco probabile dialetto triestino: “Signora,
cosa ze che tuti varda?” - “Là in fondo,
in mezo le barche zera i delfini. Le se ga fermà per non disturbar!” - “Ah, me pareva! Come l'anno scorso, sempre
in quella zona, i se gaveva anca butà in acqua, tutti che correva drio a ste
bestie. Quante gera adesso?” - “Mi go
contà tre.” - “Come l'altr'anno, sarà i
stessi. Buonasera.” - “Buonasera.”
Prendere, prendere, prendere. Ovviamente scegliendo. Delfino 100 punti.
Miglior casa, miglior merce, miglior tutto. Anche per me.
Sono stato tentato di prendere la videocamera, non si sa mai, una ripresa
ambita, pur da quella distanza. Ma forse non è un caso che mi sia rimasta una
carica della batteria di un minuto, neppure il tempo di inquadrare.
Rinuncio e sposto l'auto vicino a casa, per far meno fatica
l'indomani a caricare i bagagli.
Come entro in cucina capisco subito perché non mi sento a posto, quasi mi mancasse l'aria.
Esco e ritorno sui miei passi, sino alla casa della donna dei
fichi.
È seduta a un tavolo davanti alla porta di casa, alla fine
del vialetto. Entro chiedendo permesso e sento rispondere: “Avanti, vol
fighi?” - forse non mi ha riconosciuto, come quella donna inglese che vive
un eterno presente per l'incapacità del suo cervello di formare ricordi, a
causa di un trauma.
La prenda un chilo, o mezo...” - “No, no, ne ho già mangiati tanti, ma faso ben mi, ti vedarà” - e prendendone tre gli metto nella mano 100 kune (13 euro), pare e non pare sorpresa. - “Xe tropo...” - “no, ciapa, ti gà bisogno” – “... graxie, el torna doman, ghe nò ancora” - “non posso, mi spiace, son in partenza” - “alora buon viaggio...” - “speremo de vedarse l'anno prossimo, ciao” – “ciao...” - ripete accompagnandomi sino a metà vialetto.
In questa vacanza ci ho messo gli occhi, le orecchie (una specialmente), gli altri sensi e ho assorbito, preso tutto quello che mi arrivava. Anche dai miei ricordi, che non è detto mi appartengano, sono in prestito anche quelli, da rendere al capolinea.
Vero che non ho portato via a qualcuno o all'ambiente, se non
poche foglie di salvia e una dozzina di orecchie di mare, ambite anche dai
ricci per ricoprirsi.
Quanto a dare... non come abitudine, non riuscirei a farlo.
Ma quando si è presentato il momento, quando lo senti che adesso devi farlo,
troppe volte ho mancato l'appuntamento.
Chissà, forse stavolta ce l'ho fatta a usare quegli occhi,
quei sensi e quelle mani anche verso l'esterno. Per una piccola cosa, certo. È
la mia misura, quasi una nullità in confronto ad altri.
Forse il mio piccolo karma o destino, e a lui rispondo. Non ho obbligo di farlo con chi liberamente mi voglia giudicare.
Manca ancora una mezz'ora al tramonto, uno spettacolo a cui non ci si abitua. Mi avrebbe riempito gli occhi di una calda energia dorata. Ma la felicità intravista negli occhi di quella donna per un piccolo gesto inaspettato mi ha toccato il cuore.
Fu quella l'ultima estasi.
15: L'occhio di Vrana
Il pianeta dove viviamo è incredibilmente vecchio rapportato alla nostra esistenza.
Come sia iniziata la vita evolvendosi sino all'uomo è perenne
oggetto di discussione; per alcuni non vi è neppure stata evoluzione, per altri
la stessa è stata pilotata dall'esterno.
Via via la nascita della civiltà è stata retrodatata di
migliaia di anni; dei reperti anomali se presi in considerazione lo
farebbero ancor più: le migliaia diverrebbero centinaia di migliaia, forse
ancora oltre. Se vi furono in quei tempi antiche civiltà nulla poterono contro
immani cataclismi e i pochi scampati lentamente e faticosamente ripercorsero la
strada verso la conoscenza.
In merito le opinioni divergono, succede in molti ambiti. È
come andare dai dottori per un consulto: chi dice che la causa è quella e chi
l'altra; da intervenire subito o da attendere; da curare in un modo o
nell'altro. Evidentemente non tutte le scienze hanno l'esattezza della
meccanica che almeno una macchina che si muova in una direzione certa la
produce.
Se ne vedete l'aspetto umoristico le cose non vi
ossessioneranno più di tanto, anche se dubito per me stesso di poterlo cogliere
quando dovessi scegliere a quale dottore credere.
Se tanti risolvono la faccenda rimandando l'inizio di tutto a
entità superiori all'uomo, viene da domandarsi quando la mente dell'uomo ha
percepito la presenza del Divino.
O quando, a seconda dei punti di vista, ne abbia cominciato a
elaborare il concetto.
Conosciamo appena gli ultimi atti della storia umana e per
quella del pianeta brancoliamo nel buio, tanto da non poter escludere nessuna
ipotesi, per quanto a solo scopo speculativo, di discussione.
A volte si forma in noi una sensazione che però non trova alcun riscontro da altre parti.
Come spesso accade la si lascia andare ed evapora in fretta
dalla nostra mente.
Ma qualcuna non molla la presa, rimanendoci appiccicata da
qualche parte.
Chiede attenzione, rivolgendosi a quell'unico potere che ci è
concesso, quello dell'immaginazione, perché permetta che sia rivelato il suo
contenuto.
Perché impegnarsi nel difficile compito? Non certo per
convincere altri delle nostre sensazioni, c'è così tanta concorrenza in questo
campo!
Non ci sono validi motivi per fantasticare se non,
facendolo, di permettere alla nostra natura di percorrere una strada che si è
aperta davanti a noi. Una strada senza confini definiti, senza nessuno che
avendola percorsa del tutto in precedenza ci possa guidare.
Fra i molti modi di procedere qualcuno si risolve artisticamente,
lasciando il proprio graffito sulle pietre ai lati della strada sotto forma
di musica o di un dipinto. Gli scrittori necessitano di molte di quelle pietre
per imprimervi la loro testimonianza; gente prolissa incapace di semplificare,
affascinata dalla lunga riga delle parole simili a formiche che trasportano il
cibo, il tesoro, dal luogo del ritrovamento alla casa comune.
Per me quel luogo e quel tesoro è Vrana, il lago.
La casa comune è la nostra, a cui aprendo il libro ognuno ha
accesso. La riga delle formiche, le parole, comincia con isola, questa,
e terminerà con voi, dicendovi grazie per avermi letto.
Ora mi attende il compito di far luccicare per un istante
nella vostra mente quel tesoro.
Prima che comparisse la vita sulla terra una forza già vi
risiedeva.
Forse l'essenza della terra stessa o il principio che
ne ha sorvegliato e protetto la formazione, opponendosi ad altri, portatori di
nefasti scenari. A quel tempo i giovani astri del nostro sistema solare
cercavano la loro collocazione stabile, a volte litigando per le posizioni
migliori, non troppo vicino né troppo distante dal Sole. Il litigio degli astri
non è questione di parole ma di massa, di dimensioni. Come Giove non avrebbe
potuto ambire alla posizione oggi occupata dalla Terra, quest'ultima e Marte,
se allontanati dalla loro orbita potevano essere assoggettati alla sua forza di
gravità o a quella di Saturno.
Per mantenere una propria orbita servendo con ciò il Sole
quale unico principio, Urano e Nettuno accettarono la maggior distanza e
Plutone di risiedere ai margini, in dubbio ancor oggi se sia carne o pesce
(pianeta o pianeta nano).
La zona in cui la giovane terra si stava consolidando era tra
le più pericolose e la Luna ne pagò le conseguenze al suo posto.
Modeste, in confronto a un pianeta che fu sbriciolato e
disperso in una zona enorme, tra Marte e Giove; oppure gli fu impedito di
formarsi, secondo l'altra teoria oggi più accreditata. Monito a non tirar
troppo le corde di quelle ellissi così arditamente disegnate per equilibrare la
situazione.
Il successivo periodo fu di relativa tranquillità, eccettuata la minaccia sempre incombente di piccoli ma potenti corpi in transito, asteroidi e comete.
Assolto il compito di garantirne la sopravvivenza i principi
degli astri poterono infine ritirarsi in
profondità in un vigile riposo, lasciando il posto ad altre forze con nuovi
compiti.
Queste erano presenti quando nella Terra apparvero i primi
esseri assomiglianti lontanamente all'uomo. La distanza tra loro e i nuovi
venuti era abissale.
Ma non vi sono testimonianze né ricordi, la mente umana
doveva ancora formarsi.
La scienza ricerca gli anelli mancanti per completare il
quadro della sua descrizione dell'universo. L'anello per collegare scimmie e
ominidi, o quello per comprendere in un'unica teoria le forze che ha scoperto
agire nel macroscopico e nell'infinitamente piccolo, l'atomo.
Con la dichiarata ambizione di arrivare un giorno alla
fantomatica teoria del tutto, proposito che in altri tempi avrebbe
condotto al rogo senza indugio.
Se esiste, di quest'altro anello che colleghi forze senzienti
alla vita organica come la conosciamo nessuno sa alcunché. Solo qualche
leggenda ne accenna qualcosa, purtroppo arrivando da una distanza tale che non
è possibile comprendere se fu da loro che procedette il disegno della vita o se
questa si sia sviluppata per propria forza.
Mitologie e religioni, che hanno ben più in comune di quanto
si voglia far pensare, racchiudono tracce risalenti a quei tempi, inserite in
contesti a noi temporalmente più vicini. Gli uomini che camminavano fianco a
fianco agli Dei ne sono una, solo che per renderla comprensibile l'uomo è
bell'e fatto, con la sua mente e il suo spirito a confrontarsi con i disegni
divini.
Quella che leggerete consideratela, se volete, un'ipotesi di
come andarono le cose.
Tali forze senzienti – chiamiamoli Dei per brevità e per distinguere la loro natura da quella umana, non perché appartengano alla categoria cui si riferiscono gli attuali credi – osservarono la comparsa dei primi ominidi come si può osservare lo sviluppo e la caduta di una foglia.
Uno dei tanti fenomeni messi in atto e conclusi dall'energia
della creazione.
Gli Dei, non soggetti a decadimento e imperituri non avevano
alcun motivo per considerarli diversi dagli altri; se c'era qualcosa di diverso
sul pianeta erano loro, forze primordiali cui la materia ubbidiva docilmente.
Forze che pur distinte tra loro potevano all'occasione
ridivenire un'unica entità, capace di intervenire con smisurata energia
nell'unico compito assegnato, permettere al disegno della Creazione di
dispiegarsi nel pianeta. Se la Terra è quella che conosciamo è a causa del loro
intervento, a deviare minacce e agendo qualora un elemento – aria, acqua, terra
e fuoco – fosse in procinto di prendere il sopravvento sugli altri. Assolsero
tale compito egregiamente, pensando, come può pensare una forza, che sarebbe
stato per sempre.
Non immaginavano che il disegno della Creazione prevedesse di
intervenire anche su di loro.
In quel disegno c'era un'immagine che avrebbe cambiato il corso delle cose.
Raffigurava uno di loro, Vrana, che si volgeva verso
quei deboli esseri da poco apparsi sulla scena, provando qualcosa che mai
nessuno di loro provò. Fino a quel momento non esistevano le parole tra gli
Dei, in un istante comparvero e tutti ne poterono disporre, a causa di quanto
provò Vrana per quelle creature. Nacquero dal suo desiderio di descriverlo a
Zeca, non potendolo fare in altro modo.
Non c'era ovviamente genere in tali Dei, anche se si può
tradurre femminile con ricettivo e maschile con attivo, e tali peculiarità
associavano maggiormente alcuni di loro ad altri, come Zeca a Vrana. Pur
essendo in sé completi quella completezza conteneva la diversità, senza la
quale non lo sarebbero stati. Quale fosse la peculiarità che fece associare
anche Helm e Vrin a loro si può tradurre con un'altra parola ben lungi allora
dall'apparire: amicizia.
Dopo quel primo volgersi ce ne furono altri. Durante i quali Vrana si accorse che quanto provò dipendeva da qualcosa che si stava formando in una di quelle creature. Il disegno della Creazione, la più grande di tutte le forze, intervenne sulla sua materia, rendendola capace di qualcosa che sinora apparteneva solo agli Dei. Un abbozzo, un germe di coscienza, forse solo la sensazione di percepire. Quel primo essere osservato da Vrana se la ritrovò dentro di sé e per quanto facesse nel tentativo di allontanarla, sentendola aliena, non se ne andava. Si ritirò in profondità attendendo.
Anche il disegno della Creazione si ritirò, fatto quel che
doveva fare.
Vrana allora, intenzionalmente, camminò a fianco
dell'ominide, che sentì dentro di sé la sensazione illuminarsi come un
debole fuoco.
Facendolo volgere spaesato in ogni direzione ricercandone la
causa.
Vrana non ebbe più dubbi, per quanto orripilante fosse la creatura, coperta di ispidi peli e soggetta a una vita incerta e breve, pure conteneva qualcosa che risuonava alla sua presenza.
Come fosse possibile che la materia potesse, per quanto
rozzamente e in minima parte, rispondere alla forza era una novità senza
eguali.
L'unica da tempi immemorabili. Questo cercò di mostrare
all'amata Zeca (usiamo parole che la nostra condizione ci permette di
comprendere) e agli amici. Ma essi non riuscivano a comprendere, per quanto
completi l'inconcepibile rimaneva tale. Solo l'esperienza lo poteva
trasformare.
La fecero e si accorsero che quanto diceva era reale.
L'effetto di tale comprensione si propagò come un'onda a
toccare tutti gli altri Dei, che furono messi di fronte all'inaudito. Le
peculiarità di ognuno determinarono risposte differenti. Indifferenza per la
quasi totalità dei casi. Che importava loro se per un'accidente un ominide si
ritrovava con qualcosa che ritenevano fosse solo una loro prerogativa? Se era
successo forse si doveva a quell'altra forza, indisciplinata e senza patria che
talora appariva a mutare una cosa in un'altra.
Quella che molto tempo dopo qualcuno chiamò scherzosamente la
lotteria.
Ci fosse stato o meno il suo zampino non li preoccupava
minimamente; in capo a un battito di ciglia, il tempo di vita rimasto
all'ominide, la cosa si sarebbe risolta da sé.
Ma qualcuno tra loro ritenne di dover seguire la faccenda da
vicino, assicurandosi dell'effettiva dipartita dell'essere. Che avvenne nei
tempi consueti, in questo nulla era cambiato.
Tuttavia l'ominide si era riprodotto e quella stranezza passò alla sua discendenza e così di seguito. Solo Vrana ne era consapevole e non disse nulla, stavolta nemmeno all'amata e agli amici fidati. Un'altra onda di comprensione avrebbe rivelato a tutti gli Dei quanto stava accadendo.
Era sicuro che a questo avrebbero reagito in ben altro modo.
Ormai si era preso a cuore quell'improbabile tentativo di sintetizzare un
essere diverso sul pianeta, capace con occhi e sensi di avvicinarsi a frontiere
interdette alla materia. Attese innumerevoli generazioni prima di individuare a
chi camminare ancora al fianco e quando lo fece accadde molto meno forte che in
precedenza, solo un accenno di risonanza, una tenue scintilla, non più un
fuoco. Provò con altri, ancor meno.
La scintilla stava scomparendo e nessuna lotteria
avrebbe potuto farci nulla.
Solo un Dio poteva tentare qualcosa, ammesso lo considerasse
degno della sua attenzione.
Tuttavia non avrebbe fatto niente se non gli fosse tornato
alla mente quel primo incontro, quegli occhi che brillarono per un breve
istante di una luce diversa prima di spegnersi nel nulla.
Quegli occhi gli furono affidati dal disegno Creativo. Se non
poté far altro che prenderne coscienza, allora a che scopo il disegno lo chiamò
in causa? Non essendo una cosa che riguardasse gli Dei non lo colse subito. Per
quanto la riproduzione fosse conseguente al disegno di perpetuare la specie,
gli ominidi si distinguevano per un nonnulla dagli altri esseri.
Vi era in loro una infinitesima vibrazione di muta speranza
per la sorte della prole.
Questa cosa non esisteva in nessun'altra specie sulla terra.
Come se la materia che li costituiva, non essendo ancora formata la mente,
anelasse per essi un destino diverso dal solito... fatti non foste a viver
come bruti ma per seguir virtute e conoscenza...
Non aveva a che fare con la facoltà posseduta dagli Dei, la visione senza tempo di ogni cosa, a cui volutamente non accedevano per rispetto verso il disegno Creativo.
Riguardava specificatamente la materia, che rivelava di
contenere in sé parte di quel disegno.
Vrana ne percepì la grandiosità e non ebbe bisogno di decidere se fare qualcosa o meno, semplicemente si ritrovò a soffiare su quel fuoco, ravvivandolo.
Questo prese vigore bruciando per alimentarsi quanto aveva
vicino, creando lo spazio per qualcosa di differente dalla materia di prendervi
posto, pian piano.
La coscienza.
Così facendo, trasferì una piccolissima parte di sé negli ominidi, sì che da quel momento nessun Dio avrebbe potuto far nulla contro di loro senza farlo a Vrana e a sé stessi, essendo collegati.
In virtù di quel soffio ormai imprigionato nel tessuto stesso
della coscienza si è formato un legame tra quella forza e l'uomo. Da cui
origina l'inspiegabile senso di permanenza che a volte sperimenta.
In un certo senso Vrana diede all'uomo la vita eterna, non al
singolo ma alla specie.
Gli altri Dei avvertirono all'istante che il soffio totale
era diminuito, di un niente ma era diminuito, e poiché non c'era morte tra loro
significava che qualcuno di loro volontariamente agì da sé per un suo
fine e non per quello comune. Una cosa del genere non era mai accaduta, per cui
non c'erano parole per classificarla. Ma quello che seguì la faccenda da
vicino, nell'istante successivo le creò e chiamò in adunata tutti loro.
Da lì originarono i processi, il verificare se la singola
volontà agisca in conformità a quella comune.
Vrana non pareva curarsi della situazione. Se anche in questo si distingueva dagli altri non c'era intenzionalità, seguiva quella che si rivelava la sua peculiarità.
Zeca gli era vicina come lo fu sempre. Senza nessun ostacolo
quanto lui sentiva divenne anche suo, rimanendo a sua volta affascinata dalla
grandiosità del disegno riguardante l'uomo, a maggior ragione ora che il suo
futuro era assicurato.
Helm e Vrin non furono da meno, e con ciò tutti loro
intrecciarono i propri destini.
Quello che seguì la faccenda aveva tutti gli altri dalla sua parte, e pur se a loro non interessava granché degli ominidi – sarebbero rimasti sempre di carne, con impressa la data di scadenza – la manifesta indipendenza di Vrana poteva attirargli altre simpatie, oltre quelle evidenti dell'amata e degli amici.
Disse che non gli era permesso di fare quel che faceva: non
si era mai visto prima, gli Dei che biasimavano un loro pari!
Ma non esisteva alcun divieto, non era stato previsto che Uno
di loro si muovesse in tal modo, al di là delle consuetudini. Detto fatto si
stabilirono anche delle sanzioni, Divine e inappellabili.
Inventandosi per l'occasione la retroattività, cosicché
vennero subito applicate, non prima però di dargli la possibilità di render
conto del proprio comportamento.
Se avete creato regole e sanzioni, che adesso applicherete
a me, in seguito lo farete con altri.
Liberi, illimitati, pur agendo in ambiti diversi eravamo
una sola cosa. Non successe mai che la Volontà d'uno di noi non fosse l'unica
Volontà, perché non esistevano distinzioni.
Cosa si può e cosa no. Limiti! Come possiamo accettarlo?
Mi chiedete conto del mio distinguermi?
Se rispondessi mi distinguerei, ma non l'ho fatto e non lo
farò. Le nuove regole mancando del mio consenso dividono l'unica Volontà che ci
ha sempre uniti.»
«Pur divisa sei solo, vorrà ben dire qualcosa, o credi tu di interpretarla meglio di noi tutti?»
«Vrana non è solo, io appoggio la sua interpretazione» – intervenne l'amata, seguita dagli altri due – «Come l'appoggio io.» – dissero al contempo Helm e Vrin.
Proprio quello che non doveva succedere stava accadendo, una separazione nell'Unità.
E per cosa tutto ciò?
Per una specie primitiva che Vrana volle aiutare, era davvero
quello il motivo?
Comunque ormai era fatta, ma sarebbe stata la prima e
l'ultima, con le nuove Regole.
Purtroppo quattro, o solo quattro. Rispetto a una Divinità
pressoché infinita un nulla.
Un nulla Divino, però. Da trattare come tale, con ogni
prerogativa.
«Se Vrana sarà un lago noi ne proteggeremo i confini come montagne, purché possiamo stargli vicino.» - dissero Helm e Vrin.
«Mi andrà bene qualunque forma mi permetta di stare ai
suoi piedi e di bere alla sua acqua.» - furono
le toccanti parole di Zeca.
«E così sarà. Diverrai un lago dalla forma di un occhio, Vrana, ma confinato in una valle su un'isola e circondato da monti, dove ben poche di quelle creature per le quali hai causato tutto questo potranno raggiungerti. Helm controllerà a vista il tuo nord e Vrin il sud.
La forma di Zeca sarà quella di una piccola isola a ovest,
a un livello più basso, giacché chiese di starti ai piedi. Ma non potrai mai
contenerla in te guardandola, giacendo essa nel mare, nascosta al tuo occhio.
Tuttavia le tue acque dolci raggiungeranno lei e Vrin come sorgenti
sottomarine, sì che ne possa l'una bere e l'altro toccarti.
Sarà per sempre, almeno fin quando il Principio della Terra non deciderà diversamente, permettendo lo sconvolgimento della zona.»
Nella nuova condizione Vrana non poté continuare a soffiare
sul fuoco dell'uomo.
Così mise il suo respiro nell'acqua in modo che il calore
della terra, facendola evaporare, lo portasse a loro. La stessa acqua che col
tempo raggiunse per mare ogni luogo.
Gli ominidi divennero uomini e si dedicarono a sviluppare
quel nuovo potente strumento che li equipaggiava, la coscienza.
Il disappunto di colui che seguiva la faccenda, per non
essere riuscito a fermare l'azione di Vrana, lo portò ad aggiungere a quelle
delle altre acque, con un ben differente contenuto.
Fu così che nella coscienza apparvero anche tutte le cose di
cui ci libereremo volentieri.
Prima che fosse troppo tardi Vrana intervenne, racchiudendo
il suo soffio nella piccola molecola dell'acqua sotto forma di qualcosa che non
era mai esistito prima, perciò impossibile da individuare all'altro...
... l'ispirazione.
Attraverso quella raggiunse, facendolo tutt'ora, la coscienza
dell'uomo.
Inducendola in molti casi a cercare un'espressione con la
quale ringraziare per la vita che ha avuto in dono, visibile anche per i tanti
che non ne sono toccati.
Un'espressione che noi chiamiamo arte. Ma che è anche e
soprattutto arte di vivere.
Purtroppo pure questa subisce l'azione dell'antagonista di
Vrana, che non potendo fermare qualcosa che non conosce – l'ispirazione – se
ne sta sulla porta della coscienza allettandola a esprimere contenuti
dirompenti e corrotti, blandendola che così facendo ne otterrà maggior merito.
A lui è sempre parsa una beffa vedere quegli esseri mal
riusciti darsi tanto da fare per ascoltare chissà cosa dentro le loro teste sin
quando, mentre ne cavano fuori qualcosa, già scade il loro tempo.
Ha sempre pensato che sarebbe stato meglio lasciarli com'erano, a succhiar quel che si trova al pari di tutte le altre specie.
Zeca ha visto molte persone raggiungerla: pescatori,
contadini e col tempo soprattutto turisti.
Ma nessuno a cui fosse possibile raccontare la storia di quel
che avvenne, di quel Dio che volle avvicinarsi a tal punto agli uomini da
subire l'esilio per questo.
Molti anni fa un giovane la raggiunse con un gommone, rimase
poco e aveva altre cose per la testa che non dar retta a sensazioni anomale.
Tuttavia c'era qualcosa in lui che lo rendeva adatto, sapeva
ascoltare e non era prevenuto.
Purtroppo non aveva la maturità necessaria, doveva ancora
passare attraverso la vita e le sue esperienze. Decise lo stesso di tentare –
Vrana l'avrebbe fatto – lasciando una parte di sé nel suo cuore sotto forma di
una nostalgia senza motivo.
Ora quel giovane, divenuto uomo, ha ripagato la sua fiducia.
Ha finalmente potuto ascoltare la sua storia e l'ha scritta.
Quanto ci sia di vero in tutto ciò è di poca importanza,
conta quello che voi sentite vero.
Per quello che mi riguarda se esiste una verità è che l'ispirazione
esiste.
Il resto, senza di lei, sono solo parole.
.......................................
Ringraziamenti
È presto, non ancora le otto del mattino.
Dall'alto della collina dove sono venuto a cogliere dei fichi
da riportare a casa, Zeca mi appare completamente illuminata. Circondata dal
mare calmo trasmette una sensazione di tranquillità.
E anche che tutto sia a posto, compiuto. Il cerchio si è
chiuso.
Ho appena cominciato davvero a guardarla, mentre gli
anni passati la degnavo solo di un fugace sguardo, considerandola poco più di
uno scoglio.
Mi sbagliavo. Ora ammiro la sua bellezza: la snella forma,
la macchia rigogliosa che la ricopre nonostante l'aridità, il mare luminoso...
dov'erano i miei occhi, prima?
Ma non l'avrei vista comunque, non era il momento e
non intendeva rivelarsi.
Poi l'ha fatto, permettendomi di scrivere questa storia.
Una delle possibili, quella che mi ha ispirato, perciò vera
al mio cuore.
Lei mi ha aperto la porta per far conoscere sé stessa, il suo
Amato e i suoi Amici fidati.
Ancora grazie per l'onore, Zeca.
Grazie a te, Vrana, il merito di questo libro è tuo.
Io sono solo una scatola vuota dove risuonano voci, suoni e
pensieri.
Perché da quell'ammasso disordinato e caotico si intraveda
qualcosa che abbia significato, un po' di valore, serve una certa disposizione,
un atteggiamento.
Ma senza il soffio dell'ispirazione non se ne cava nulla.
Ti sei rivelato come quel soffio. Ad altri ti presenterai in
forme diverse, è una tua prerogativa.
Pur limitato in quella forma d'occhio e tuttavia illimitato.
Le tue acque si sono mescolate nei millenni a quelle del mare attorno e da lì
agli oceani. Evaporano e ricadono da sempre sulla terra. Una singola molecola
di quell'acqua porta la tua vibrazione.
Sei dappertutto e sussurri a tutti “guarda, ascolta...”.
Il senso è ora, ognuno lo sa, non serve ricordarlo con tanti
esempi.
Quel qualcosa che ci manca e sfugge non può che essere qui.
Non conoscendo cosa e come cercare possiamo solo provare a
tenerci in disparte e aver fiducia nei nostri occhi, orecchie e gli altri
sensi.
Sperando che quanto ci portano possa rivelarsi per quello che
è, un'espressione della vita.
Nel mio caso è stato anche osservare, seduto al bar della
ballerina, la vita di altri miei simili svolgersi come uno spettacolo davanti a
me, illuminato dal sole abbagliante di quest'isola.
Ascoltandone le storie dalla voce narrante da qualche
parte dentro di me, se davvero c'è un dentro.
La vita è uno stato mentale – è l'ultima citazione nel film “Oltre il giardino” con Peter Sellers.
Come a suggerire che noi interpretando quanto accade modelliamo la nostra realtà.
Ne ricordo un'altra, ai tempi del mio interesse per lo yoga,
oltre trent'anni anni fa:
Mi è rimasta impressa e non l'ho dimenticata.
Si potrebbe tradurre in altri modi, apparentemente simili.
Dove al posto di mente (l'induismo ne prevede quattro tipi)
si può intendere pensiero; sospensione al posto di cessazione e turbinio
per modificazioni.
Diventando: lo yoga è la sospensione del turbinio del
pensiero, molto più comprensibile e relativamente a portata di mano.
Qualsiasi nome abbiate per esso va bene. Qualsiasi cosa
immaginate va bene.
Siete voi. Tremendamente piccoli e insignificanti,
ampliando la scala, naturalmente.
Spesso schiacciati e poche volte felici. Della durata di un
battito di ciglia.
C'è un senso a tutto questo?
Nessuno vi darà mai una risposta convincente, dovete trovare da voi la vostra, l'unica che conta.
In questa estate ne ho incontrata una, per quanto sarebbe più corretto dire che lei ha trovato me.
Ho scoperto che nell'incessante viaggio tra queste due sponde
non sono sempre solo.
Quella buffa e a volte imperativa voce narrante mi ha
accompagnato, e l'energia che l'animava, ne sono certo, non era la mia.
Era quella dell'ispirazione, conforme al mio livello.
Una forza amica ha voluto parlarmi, forse nell'immaginazione,
forse davvero.
Per me era un lago, pur se mai toccato. Per voi qualunque
altra cosa o persona.
Nella vita tutto ci parla, purtroppo i nostri problemi e le
difficoltà dell'esistenza difficilmente ci permettono di udire.
Ma quando accade non siete più soli. E sentite di dover e
poter rispondere.
Con un ringraziamento.
Con una canzone o un bacio.
O facendo qualcosa, quello che vi viene in mente.
A volte con un libro.
Ne ho già scritto uno, perso chissà dove e non so la fine che
farà questo.
Ho fatto quanto potevo, per farlo per voi che forse
l'avete letto dovevo farlo per me.
Perché sentita la voce dell'ispirazione non la potete
ignorare, la perdereste per sempre.
Che quella voce parli ai vostri cuori, lettori e compagni di
viaggio.
Grazie.
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